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Bono Vox, gli U2 e la sindrome di Gesù

by Giuseppe Maneggio
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0156Roma, 8 set – L’ultimo album della band irlandese è stato pubblicato esattamente un anno fa. Quel ‘Songs Of Innocence‘ che tante critiche ha raccolto in giro per il mondo sia tra i fans sia tra gli addetti ai lavori. Una mancanza di idee ed un pochezza artistica come poche volte si era sentito, per non parlare della voce di Bono, sfiatata e irritante lontana anni luce dai fasti di un tempo.
Si, perchè gli anni passano per tutti, anche per chi ancora vive come una macchina che fagocita facili guadagni. Gli U2 nascono nei primi anni ’80 con una chiara vocazione rabbiosamente post-punk fortemente influenzata dai Clash. Le abilità risiedono principalmente nelle linee melodiche espresse dalla voce di Bono, indiscutibilmente dotato a quell’epoca. Chitarristicamente parlando non abbiamo nulla di alcunchè. The Edge all’anagrafe David Howell Evans, che è stato nettamente sopravvalutato, non verrà di certo ricordato nella storia del rock alla stessa stregua dei vari Jimmy Page, Jimi Hendrix, Eddie Van Halen o Ritchie Blackmore.
Diciamo più prosaicamente che agli U2 concediamo un paio di album buoni, al massimo tre ((The Unforgettable Fire, The Joshua Tree e Achtung Baby) con ‘War’ e ‘October‘ subito dietro. Per il resto nulla che possa entrare di diritto nella storia della musica moderna.
La band ha mosso i suoi primi passi riportando nella loro musica una parte della tradizione irlandese per poi virare verso una matrice più rock blues americana. Negli anni ’90 i fans di vecchia data si trovarono spiazzati di fronte all’ennesimo cambio stilistico che faceva della volontà di sperimentare uno dei punti cardine del nuovo corso di Bono e soci. Con l’inizio del nuovo millennio gli U2 sono tornati ad un rock più classico ma che con il passare degli album ha messo in mostra un’aridità compositiva assai evidente spostando l’asse musicale verso quel rock/pop da classifica che tanto annoia.
Ma quel che infastidisce, e non poco, i numerosi detrattori della band irlandese è quella “sindrome da Gesù” che li affligge. Sentono di essere salvifici e nella loro posizione di elevazione da rock star di fama mondiale si convincono del fatto che il rock sia una forza evolutiva dell’umanità. Un’idea non molto distante dal pensiero invasivo del cattolicesimo dogmatico. Sicuramente alla base c’è un certo delirio di onnipotenza, soprattutto nelle azioni svolte da Bono, e questo può essere il risultato di rivolgersi ogni sera a 100 mila persone adoranti all’interno di uno stadio: la sensazione di poter cambiare le sorti del mondo solo perchè ci si ritrova sopra ad un palco con decine di migliaia di fans in delirio per te. E il fatto di dichiarare l’intenzione di mutare i destini del mondo ai mezzi di stampa e al mondo interno non fa degli U2 delle persone credibili.u2-torino-2015-lettera-aperta-660x428
Si possono fare azioni socialmente utili e non sono pochi gli artisti musicali che si sono cimentati o si cimentano in opere di bene, ma non c’è il bisogno di farne uso come mezzo di propaganda che altro non fa che accrescere i lauti guadagni di una band in netta e decisa fase discendente sul piano musicale.
I Pearl Jam sono l’esempio più lampante. La band di Seattle vanta 25 anni di onorata carriera e pur essendosi allontanata dalle ribellioni grunge degli esordi, virando il proprio sound verso un canonico rock di matrice americana, non ha mai snaturato se stessa. Mai una sbavatura, ma soprattutto mai un eccesso che li possa aver fatto elevare ai livelli di dei scesci in terra. Eppure gli stadi li riempono anche loro (lo scorso anno San Siro a Milano vide la presenza di oltre 62 mila spettatori) e le battaglie sociali e anche politiche li impegnano e non poco. Eppure nessuno dei membri della band se ne vanta. Nessuno di loro si ritroverà a fianco di presidenti del consiglio o di altri Vip per assurgere nella posizione salvifica vantata dagli U2. Nessun componente dei Pearl Jam, per intenderci, sfilerebbe ad un Expo come fosse un divo di Hollywood. Semplici nel loro modo di presentarsi: jeans e maglietta come si conviene nella migliore tradizione del rock. Niente occhiali sgargianti, nessun abito super-appariscente. Ma soprattutto ancora in grado di fare tre ore di concerto tiratissimo.
Gli U2 offrono invece palliativi per i poveri, come fosse un profumo che svanisce nell’arco di una giornata. Bono fa i ‘Live Aid’ e poi va a cena con Bush. L’Etiopia resta ugualmente povera e Bono sempre più ricco. Il senso di tutto è raccolto qui.
Del resto il cantante della band irlandese è già stato beatificato e i predicozzi che sciorina sono all’ordine del giorno.
Ma il rock ci insegna che la lunghezza del periodo più fulgido della carriera di una band è breve. I Rolling Stones stanno tentando di dimostrarci che si può durare tutta la vita e anche oltre, ma è un’eccezione che non conferma la regola. Nella realtà pochi sono quelli che riescono a farlo per oltre due o tre lustri. Forse è il caso per Bono e soci, di appendere gli strumenti al chiodo e di chiudere qui una carriera, non scevra di risultati positivi, ma che si sta concludendo nel peggiore dei modi.
Giuseppe Maneggio
 

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2 comments

teo sansepolcrino 9 Settembre 2015 - 11:48

U2 servi della borghesia plutocratica

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Federico 14 Settembre 2015 - 12:56

Semmai War e October sono i migliori e poi via scendendo…Non ho capito francamente il riferimento al cattolicesimo dogmatico. A parte il fatto che il cattolicesimo, come tutto il cristianesimo, è dogmatico oppure non è, poi la “salvificità” del rock a vario titolo mi pare propugnata da tutto il meanstream sessantottardo a tutti i livelli….

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