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La giovinezza di Montanelli ebbe un nome: Berto Ricci

by Mario Bernardi Guardi
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montanelli-interna-640.jpgRoma, 3 mag – Per il titolo del suo libro-biografia intellettuale e morale/umorale, ricognizione a metà tra il saggio e la letteratura, esercizio di ammirazione nei confronti di un toscanaccio che è stato, nel bene e nel male, un “interventista della cultura”- Salvatore Merlo è andato a pescare tra le inconfessabili – e tuttavia più volte confessate – suggestioni fasciste di Indro Montanelli. Diciamo di più: del Montanelli fascista e sodale di Berto Ricci nell’impresa dell’Universale, il “foglio” fiorentino che, certo, era “di lotta”,salvatore-Merlo-libro ma, in qualche modo, anche “di governo” perché ci teneva a dare una mano a Mussolini nel governo dell’Italia in camicia nera. Fummo giovani soltanto allora è il titolo del libro (prefazione di Ferruccio de Bortoli, Mondadori, pp. 225, euro 20): ed è quel che più volte Montanelli, in vario modo, ha detto e scritto, riferendosi alla sua stagione di fascista “ricciano”. Indimenticabile stagione. Indimenticabile Berto Ricci. Indimenticabile quel fascismo.

E sul “possibile” e “impossibile” ci sarebbe da star a ragionare all’infinito. Peccato che non ci sia Indro a farci compagnia. L’ultima volta che l’abbiamo visto? Alla “Versiliana” di Marina di Pietrasanta, in un luglio bollente, un bel po’ di anni fa. Più secco e più ossuto che mai nel suo bel metro e ottantasei di altezza, Indro, in completo chiaro, sembra quasi prosciugato, ma gli occhi continuano ad essere vivaci e mobili. E se a parlare, come diciamo noi in Toscana, “intacca” un po’, e cioè balbetta, il tono è sempre sferzante. Il gusto della polemica, della battuta fulminante e del sarcasmo ce l’ha nelle ossa – tante – il grande Indro, e quindi lo sfodera implacabile. Il fatto è che la folla strabocchevole che lo festeggia al Caffè di Romano Battaglia – un altro che se n’è andato e anche per lui un lumino nel nostro altare dei ricordi c’è – gli fa, sì, piacere, ma gli dà anche un po’ noia: tutta questa gente che lo coccola, adorante e protettiva, non gli starà mica “scrivendo” un metaforico “coccodrillo”? Perché lui, pur con tutti i disagi della vecchiaia e quel “male oscuro” (la depressione) che da sempre si porta dentro, mica si sente un vecchietto da pensione. E se qualcuno pensa che abbia un piede nella fossa, ecco, gli dà volentieri la precedenza…

L’aggressivo “caratteraccio”: un contrassegno di Montanelli. Indro lo sapeva bene e c’era affezionato. Sulla faccenda del carattere ritornava Berto-Ricci-1spesso, anche a costo di ripetere la banalità trita e ritrita secondo cui gli uomini di carattere hanno un cattivo carattere. Come lui? Ce l’aveva Montanelli, il carattere? Bè, per Montanelli, Ricci ce l’aveva, eccome! Perché era una persona perbene, un uomo serio, sobrio, fedele a se stesso e alle sue idee. Torniamo a chiederci: Montanelli, oltre ad avere un “caratteraccio”, è stato anche un uomo di “carattere”? A lui Emilio Cecchi disse una volta: “ Tu sei per metà Prezzolini e per metà Gobetti. Cammini con una gamba dell’uno e una dell’altro. Perciò sta attento, ché rischi di sciancarti”. Vero. In Montanelli c’erano aspetti del “bastian contrario” scettico e disincantato e aspetti del “bastian contrario” idealista e appassionato; c’era l’”apota” – colui a cui non la danno da bere i fanatici dell’uno e dell’altro fronte, colui che sempre e comunque mantiene intatto il suo spirito critico – e c’era il combattente della “Compagnia della Morte”, quello che scende in campo e che si schiera, perché in certe circostanze è necessario farlo, anche a costo di avere accanto, a combattere la tua stessa battaglia, tipi che non ti piacciono. Ma – lo ripetiamo e lo ripeteremo sempre, perché è lui che ce l’ha detto – nel cuore e nella mente di Montanelli c’era soprattutto – lampada votiva in eterno accesa: ci si passi l’immagine retorica – la memoria dell’amico Berto Ricci a valere come testimonianza esemplare. Come via da battere intrepidamente, se hai tanto coraggio e tanta generosità da farcela, costi quel che costi.

E se questo onore non ti tocca, almeno come orientamento di vita, tratto irrinunciabile del comportamento quotidiano. Una questione di “stile”. Franz Blei, austroungarico, docet: “Lo stile è l’impronta di ciò che si è su ciò che si fa”. Evviva l’Austria Felix-Infelix che di stile ne aveva! Torniamo a Indro. Bè, il Fucecchiese non è stato né un eroe né un santo. Però nel 1944 i Tedeschi lo sbatterono dentro perché era un monarchico “badogliano”. Lo avrebbero accoppato volentieri? Chissà. Indro, sulla morte, come scrive Merlo, ci fece i suoi pensierini: ma la scampò. Anche perché forse non gli sarebbe garbata l’aureola del martirio presa a san Vittore, in mezzo a tanti che neppure gli andavano troppo a genio. Meglio il fuoco sacrificale di Ricci, di Giani, di Pallotta, morti sul campo e affettuosamente invidiati. Nel dopoguerra, il Nostro, con Longanesi e con “Il Borghese”, scelse per qualche tempo gli irregolari dell’anti-antifascismo- con venature di nostalgia- contro i conformisti del nuovo regime. Poi, però, ce la mise tutta per diventare l’”Oppositore di Sua Maestà”, la Firma Illustre che sparacchiava ribollenti inchiostri dai giornaloni borghesi per sentirsi dire: “quant’è bravo!”. È vero, tutta questione di carattere: Indro era troppo attaccato ai lustrini della fama per mettersi a far l’Eroe. Ma nel 1974, con “Il Giornale”, in una Milano livida e piegata dalla paura, decise di sventolare una bandiera scomodissima, mandando a farsi fottere i radicalchic che al “Corriere” trescavano con i gruppuscoli e sprangavano i “fascisti”; nel 1977, a causa di questa scelta “inopportuna” e del taglio anticonformista che aveva impresso al suo quotidiano, fu gambizzato dalle Brigate Rosse; a metà anni Novanta, quando avrebbe potuto esibire il suo ricco medagliere di coerente anarco- conservatore presentandosi come un berlusconiano antemarcia, ecco che tronca col Cavaliere e si mette a strillargli contro. Con una Voce stonata, che dovrebbe essere “spiacente” tanto “a Dio (Silvio)” quanto a “li nimici sui” (le sinistre), ma che, col suo tasso di dichiarata faziosità polemica, finisce col risultare inevitabilmente compiacente verso i (compiaciutissimi) “compagni”.

Quelli che solo qualche anno prima Montanelli lo avrebbero volentieri spedito in un gulag e che adesso, convinti di poter “sfruttare” il solito “spirito libero” nonché “utile idiota”, iniziano il processo di beatificazione del Grande Giornalista Anti-Cav. Ma su queste vicende e su tutti i possibili perché e percome dell’Indro Furioso e Tonante contro destre di plastica e nuovi duci massmediatici fascinosi affabulatori e lusingatori delle italiote masse, non è adesso il caso di soffermarci. Preferiamo tornare, invece, a Berto Ricci. L’amico fiorentino alla cui memoria Indro si è sempre inchinato senza far distinguo. Il professore di matematica, il poeta, il combattente. Il fondatore di una delle riviste più belle, intelligenti e combattive del fascismo “eretico”. Di Ricci, Montanelli ha sempre detto tutto il bene possibile. Talvolta direttamente, a cuore aperto, senza tanti giri di parole. Come fece con noi, quando, per un servizio dedicato a Berto, che apparve su “Storia Illustrata” (marzo 1987), lo intervistammo (insieme a Romano Bilenchi, Beppe Niccolai e Domenico Settembrini), perché rievocasse l’uomo, l’amico e il fascista “fedelissimo rabbioso”. Talvolta direttamente, dicevamo, altre volte, se così si vuol dire, “alla Montanelli”, e cioè con quei saporini asprigni e quelle puntine d’amaro che non potevano nascondere il dolce. Ad esempio, il 18 gennaio del 2001 (l’anno della morte), in una replica ad Emanuele Macaluso. L’ex-dirigente comunista, animatore di un “post-“ sempre graffiante e brillante, si chiedeva se nell’ardore polemico, nel puntiglio permaloso con cui tanti “compagni” avevano difeso le “ragioni del socialismo” anche di fronte a palesi errori e orrori, non rientrasse anche la categoria psicologica, chiamiamola così, della “tigna”. Ecco l’apologo esplicativo: “(…) mi è venuto in mente- scriveva Macaluso- quell’anziano artigliere di Napoleone, il quale, ferito e stremato nel corso di una ritirata, continuava a sparare. Bonaparte, vedendolo in quelle condizioni, gli avrebbe detto: lo fai per l’Impero? No, rispondeva l’artigliere. Lo fai per la Francia? No, insisteva l’artigliere. Lo fai per l’Imperatore? No, replicava l’artigliere. E per chi lo fai? chiedeva stizzito Napoleone. Per tigna, solo per tigna, rispose con rabbia l’artigliere”. Macaluso non poteva fornire a Montanelli uno spunto migliore per fargli cavar fuori dalla memoria quel personaggio di straordinaria coerenza, dunque di paradossale “tigna” , che fu Berto Ricci. Leggiamo: “Ne ho conosciuto anch’io uno, di questi artiglieri. Si chiamava (forse ne avrai sentito parlare) Berto Ricci ed era un professore di matematica che, avendo sempre militato nelle file anarchiche, nei primi anni Trenta credette di essere stato folgorato sulla via di Damasco dall’apparire di Mussolini, si inventò un fascismo che stava solo nella sua testa e di riflesso in quella dei suoi più giovani amici, tra i quali il sottoscritto, fondando un giornaletto che non solo si chiamava ‘L’Universale’ ma pretendeva di esserlo; e che naturalmente dopo poco fu soppresso per ‘deviazionismo’. Lui tornò (non aveva mai smesso) a fare il professore di matematica in una scuola tecnica di Prato. Quando scoppiò la guerra, fece domanda di arruolamento volontario, e io andai a salutarlo a Napoli il giorno del suo imbarco per la Libia. ‘Perché ci vai-gli chiesi- se non ci credi più nemmeno tu?’. ‘Appunto- mi rispose-. Nella vita si può smettere di credere una volta. E io l’ho già fatto ripudiando la mia militanza anarchica. Non posso rifarlo: diventerebbe un mestiere’. Partì. E come – immagino- l’artigliere, non tornò. Per tigna”.

Berto Ricci morì a Bir Gandula, in Cirenaica –la sua batteria fu attaccata da due aerei inglesi- il 2 febbraio del 1941. A Montanelli restavano ancora sessant’anni da vivere, tante cose da scrivere, tante polemiche da fare, più o meno a proposito: e restava una specie d’obbligo morale cui far fronte. Quello di render testimonianza del suo amico- e camerata- Berto Ricci. L’ha fatto, con maggiore o minor coraggio in tante occasioni. Il coraggio è tignoso, la verità rognosa. Qui, però, Montanelli non la dice tutta. O meglio, dimentica (?) che Berto Ricci non va a cercar la morte in una sorta di rogo sacrificale, quasi per punirsi di aver creduto nel Fascismo e al tempo stesso perché si vergognava di aver cambiato bandiera un’altra volta, dopo avere ammainato quella anarchica. No, Berto Ricci, anche dopo la chiusura dell’Universale resta fascista. E tutt’altro che “disorganico”, visto che, stimatissimo da Mussolini, aveva sul Popolo d’Italia una sua rubrica (“Bazar”) e collaborava a Critica Fascista. E’ vero: tra i giovani dell’Universale– chiuso nell’agosto del 1935- ognuno se ne stava andando per conto suo: Montanelli nella Destra liberal-monarchica, Bilenchi tra i comunisti. Ricci, no. Lui era, restava fascista. E fece fuoco e fiamme con Pavolini, Pini, Ciano, Mussolini perché lo mandassero in Africa.

Voleva combattere “gl’inglesi di fuori”, per poi tornare a casa e fare i conti con “gl’inglesi di dentro” e cioè con tutta la “fascisteria” dei gerarchi impennacchiati, opportunisti, carrieristi, che della “rivoluzione” se ne fregavano, o addirittura remavano contro. Ha tanto amaro in corpo, “quel” Berto, ma non è disperato. Anzi, spera nel futuro, come testimoniano le lettere ardenti e commosse che invia a casa (si legga, o si rilegga, a questo proposito, quanto ha scritto Paolo Buchignani in “ Un fascismo impossibile. L’eresia di Berto Ricci nella cultura del Ventennio”, Il Mulino, 1994). Montanelli, del resto, queste cose le sapeva. E quando gli andava le ribadiva. “Scripta manent” a testimoniarlo. Uno su tutti. Un articolo celeberrimo – ma è di quelli che si leggono e si rileggono- firmato Antonio Siberia e pubblicato dal “Borghese” di Longanesi (“Proibito ai minori di quarant’anni”, 4 febbraio 1955). Solo una citazione: “ Nessuno di noi la strada della ribellione la battè sino in fondo, come voleva Ricci: per la semplice ragione che si trattava di una strada che fondi non ne aveva. Qualcuno poi scantonò in questo o in quello dei sette o otto partiti che aprirono le porte a questa generazione perduta. E forse si illuse di aver trovato un’altra bandiera. Io sono tra i rassegnati: so benissimo che di bandiere non posso averne altre e che l’unica che seguiterà a sventolare sulla mia vita è quella che disertai, prima che cadesse”. Un “disertore” e un “tignoso”, Indro e Berto? Ah, giovinezza, giovinezza…

Mario Bernardi Guardi

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