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Mitologia dell’antica Roma: la festa in onore di Vulcano

by La Redazione
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RomaRoma, 22 ago – A Roma il 23 agosto si celebrava la festa in onore di Vulcano, il Dio del fuoco terrestre e distruttore, fabbricante di armi e fulmini.
Dùmezil, attraverso la tecnica della comparazione con l’India Vèdica, avvicina Vesta al fuoco domestico e delle offerte agli Dèi, mentre Vulcano al fuoco che divora e distrugge, rivolto verso le potenze ostili e questo spiegherebbe perché i suoi templi dovevano essere costruiti fuori o al limite esterno delle mura, come già il Volcanal alle origini di Roma. Questo spiega anche perché a Vulcano si consegnassero bruciandole per annientarle le armi e le spoglie del nemico prese sul campo di battaglia, come anche le armi del sopravvissuto alla devotio.

In occasione della festa si svolgevano i Ludi Piscatorii, giochi in onore dei pescatori del Tevere sull’altra riva del fiume rispetto alla città e si sacrificavano nel fuoco del Volcanal piccoli pesci vivi, pescati nel fiume, al posto di anime umane. Pare che durante questa festa la gente usasse appendere abiti o stoffe al sole. Un’altra usanza praticata in questo giorno era di iniziare a lavorare con la luce di una candela, probabilmente per auspicare un uso benefico del fuoco legato al Dio.
Nel suo tempio ardeva un fuoco perenne. Secondo la tradizione romana, il santuario era stato dedicato da Romolo, il quale vi aveva anche posto una quadriga di bronzo dedicata al Dio, preda di guerra dopo la sconfitta dei Fidenati. Inoltre il re avrebbe piantato nel santuario un albero di loto sacro, che esisteva ancora ai tempi di Plinio il vecchio e si diceva che fosse tanto antico quanto la città stessa. Sul Volcanal c’era anche una statua in bronzo di Orazio Coclite, che era stata qui spostata dal Comizio, un locus inferior, dopo essere stata colpita da un fulmine. Aulo Gellio racconta che furono chiamati alcuni aruspici per espiare il prodigio, ma questi mossi dal malanimo fecero spostare la statua in un luogo più basso dove non batteva mai il sole. L’inganno fu però scoperto e gli aruspici giustiziati; in seguito si scoprì che la statua doveva essere posta in un luogo più alto e così fu fatto sistemandola nell’area Volcani.
L’episodio di Orazio Coclite (soprannominato Coclite, o il “Ciclope”, perché in tempi passati perdette un occhio o perché i suoi occhi sembrano formarne uno solo ) si colloca quando a Roma l’esercito dell’etrusco Porsenna si accinge ad assalire la Città con lo scopo di restaurare il regno dei Tarquini (etruschi come lui). Nella rotta generale, Orazio si precipita alla testa del ponte attraverso cui si entra in Roma e che i Romani, approfittando di una tregua, stanno già demolendo. Dapprima sbalordisce i nemici con il suo prodigioso coraggio (“ipso miraculo audaciae obstupefecit hostes”), poi, rimasto solo davanti al ponte, volge sui capi etruschi sguardi terrificanti e minacciosi (“circumferes truces minaciter oculos”), ora sfidandoli uno ad uno, ora schernendoli tutti insieme. Per molto tempo nessuno osa reagire. Quindi i nemici fanno piovere su di lui un nugolo di giavellotti che si conficcano tutti nel suo scudo, mentre lui si ostina a presidiare il ponte muovendosi a grandi passi. Alla fine, quando gli Etruschi stanno per scagliarsi contro di lui, il ponte crolla e Coclite, dopo aver invocato la protezione del Padre Tevere, raggiunge a nuoto la porta passando incolume sotto una gragnuola di giavellotti. Poco tempo toccò a Muzio (in seguito scevola, cioè mancino) salvare Roma. Penetrò nel campo etrusco per uccidere Porsenna, ma sbagliò obiettivo. Catturato e portato di fronte al re, sacrificò la sua mano destra sul braciere acceso e pronunciò le famose parole “Et facere et pati fortia Romanum est”, che tradotta letteralmente significa è da Romano compiere e patire cose forti.

Come sempre, la storia di Roma cela significati profondi: è lo sguardo di fuoco di Orazio Coclite a fermare gli assalti degli etruschi, ma è il fiume a dargli salvezza. Questa alternanza si ritrova continuamente : il fuoco perenne e la pianta di loto (legata all’acqua) nel tempio, la festa del Dio e i ludi piscatorii.
E’ il fuoco di Vulcano che forgia le armi e le virtù destinate a portare Roma alla Vittoria, ma va sapientemente temperato con l’utilizzo del liquido che raffredda e indurisce.
E non è di certo un caso se proprio nel giorno della festa di Vulcano, nel 23 agosto del 410, si ebbe il sacco di Roma da parte dei Visigoti di Alarico: la città eterna era già stata minata al suo interno dai nuovi culti e privata del legame ancestrale con le sue divinità. Ed ancora il 23 agosto del 1268 Corradino di Svevia fu sconfitto da Carlo d’Angiò nella battaglia di Tagliacozzo, stroncando le speranze di rinascita ghibellina di contro ai guelfi sostenitori del Papa. Corradino, catturato in seguito, fu decapitato a Napoli: il mito racconta che un’aquila irruppe dal cielo e bagnò un’ala nel sangue dello Staufen, come per annunciare vendetta.
Il Fuoco di Vulcano non è spento, nella sua fucina si temprano ancora le armi, le virtù e gli Eroi degni di portare il nome di Romani, Italiani, Europei.

Marzio Boni

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1 commento

Alessandro Burnett 24 Agosto 2016 - 9:53

E nella notte del 23 le forze ctonie tornano a far sentire la loro presenza. Fino a quando dovremmo ignorarle?

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