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La Camera approva il “Jobs Act”, ma la minoranza Pd si spacca

by Filippo Burla
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Bersani Fassina CamussoRoma, 26 nov – Che l’iter della riforma del Lavoro non sarebbe stato agevole, lo si era capito da subito. Che potesse portare addirittura ad un rischio scissione nel partito del presidente del Consiglio, non era così scontato. Fatto sta, la Camera ha approvato la legge delega con 316 sì e 6 no. Tutti i gruppi di opposizione non hanno partecipato alla votazione, seguiti da una nutrita pattuglia di 29 deputati in quota Partito Democratico. Si tratta della minoranza interna che fa capo ai vari Fassina, Cuperlo, Boccia. Uno dei nomi più noti fra questi, cioè Filippo Civati, ha scelto invece la linea del voto contrario. E’ la prima volta che il gruppo “scissionista” fa sentire esplicitamente la propria voce. Non con grande efficacia, dato che Renzi è uscito indenne dalla votazione senza neanche chiedere la fiducia. Ora la legge passa in seconda lettura al Senato e, una volta approvata nella camera alta, la palla sarà nelle mani dell’esecutivo.

Quali i punti salienti dell’impianto? Serve anzitutto precisare che non si tratta di legge ma di delega al consiglio dei ministri, contenente i limiti entro cui il governo dovrà poi esercitare la funzione legislativa emanando di volta in volta i decreti. Questo quadro si caratterizza per la forte spinta verso una sempre maggiore flessibilità. L’idea-principe è infatti quella di accantonare definitivamente l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, superando il reintegro nel posto di lavoro a seguito di licenziamento e sostituendolo con un indennizzo che va ad aumentare con l’anzianità di servizio. E’ questa una prima esemplificazione del cosiddetto contratto a tutele crescenti. Sono invece ancora da definire -e non sarà compito facile, con il rischio di rimanere nel vago- le fattispecie in cui i licenziamenti sono comunque considerati illegittimi perchè disciplinari o discriminatori. Due eventualità che, nella pratica di tutti i giorni, sono estremamente rare nonchè difficili da identificare. Non pochi hanno sollevato dubbi in proposito, avanzando l’ipotesi che possa trattarsi di un “contentino” lasciato per evitare che l’opposizione interna ai democratici ingrossasse le fila. Magari includendo nomi di area sindacale, come ad esempio Patrizia Maestri (a ottobre data in quota dei probabili dissidenti), ex segretario della Cgil di Parma, che ha votato a favore.

Oltre alla questione dell’articolo 18, la legge delega interviene anche su ulteriori aspetti che ruotano attorno al tema sempre del Lavoro. A partire dalla cassa integrazione, che si tenderà a rendere non più utilizzabile se la prospettiva non è la ripresa dell’attività ma la sua cessazione. Si punta in secondo luogo ad un riordino nella marea di contratti oggi disponibili, con l’idea di eliminare la forma della collaborazione a progetto. Altro tema all’ordine del giorno del governo sarà poi il potenziamento delle politiche attive, vale a dire quelle orientate al sostegno nella ricerca di una nuova occupazione in caso di perdita del posto di lavoro.

L’obiettivo, esplicitato da più parti, è quello di spingere verso l’ormai nota “flessicurezza” –flessibilità coniugata con sicurezza– sul modello dei paesi nordici: nessuna tutela del posto fisso ma garanzia di una continua occupazione nel tempo. Per il momento siamo solo sulla prima parte del neologismo. La seconda è ancora in attesa.

Filippo Burla

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