Home » “Ender’s Game” o il senso (incompreso) della guerra

“Ender’s Game” o il senso (incompreso) della guerra

by La Redazione
0 commento
Orson Scott Card

Orson Scott Card

Roma, 4 nov – Malgrado il boicottaggio annunciato da una serie di associazioni gay americane per l’impegno dell’autore Orson Scott Card contro l’estensione del matrimonio a coppie dello stesso sesso, è finalmente uscito anche in Italia Ender’s Game, il film tratto dall’omonimo romanzo di “military SF” del 1985, capostipite di una intera saga di libri e racconti con tre sequel (Speaker for the Dead, Xenocide, Children of the Mind) un interquel (Ender in Exil), una trilogia di prequel sulla prima guerra contro i “formics”, e una quadrilogia relativa ad eventi paralleli all’azione principale – il tutto complicato dal fatto che come ormai di regola la data di pubblicazione e la collocazione temporale delle relative trame non coincidono affatto, così che sta al lettore sufficientemente interessato ricostruirne la cronologia.

La trama, benché giocoforza semplificata, resta in effetti la stessa: l’Umanità è sotto la minaccia di un nuovo tentativo di invasione da parte dei formics, e una Flotta Spaziale Internazionale è incaricata di fare tutto quanto possibile per assicurare la vittoria. In questo, l’essenziale è la produzione, selezione e addestramento di un gruppo di cadetti-bambini, giovani a sufficienza per avere la mentalità, la flessibilità, la cultura e i riflessi adatti ad un tipo di guerra che assomiglia essenzialmente ad un videogame tridimensionale che sfida dottrine strategiche, modi di pensare e catene di comando tradizionali.

L’addestramento di base in cui viene coinvolto Ender, che ci si aspetta sin dall’inizio possa prendere il comando delle intere operazioni, avviene in una Battle School orbitale dove la parte preponderante dell’impegno dei cadetti è profuso in un gioco di combattimento a squadre, che si svolge in una Battle Room a gravità zero, e che è utile a sviluppare la loro consapevolezza tattica e capacità di lavorare in gruppo.

Dopo aver superato varie difficoltà in parte deliberatamente create dallo staff di adulti che monitora costantemente i cadetti, tra cui l’alterazione delle regole del gioco e la generazione nelle partite di condizioni “impossibili” da superare, il protagonista viene avviato alla Command School, dove finisce per ritrovare alcuni suoi

endersgame

compagni di corso ed è ora impegnato, insieme con loro e sotto il controllo dell’ufficiale che aveva per il rotto della cuffia respinto l’ultima invasione, in simulazioni sempre più difficili e martellanti di vere battaglie spaziali, all’orlo dell’esaurimento, sino all’esame finale, che consiste in un attacco al pianeta stesso dei formics difeso da forze assolutamente preponderanti.

Quando la battaglia finisce con la distruzione del pianeta, grazie ad una brillante tattica suicida che Ender mutua dalla sua esperienza di gioco nella Battle Room, lo Stato Maggiore gli comunica che quanto fatto alla Command School non era una simulazione. Non ha combattuto in un gioco contro il computer e contro l’eroe dell’ultima invasione, ma in una vera campagna contro i formics, resa possibile dal fatto che una flotta era stata spedita nella direzione del loro territorio da ben prima che nascesse e dalla scoperta di una forma di comunicazione più-veloce-della-luce che ne ha consentito il comando e coordinamento a distanza da parte dei cadetti ai suoi ordini.

Il film è tutto sommato mediocre, ivi compreso negli effetti speciali, ma nella sua trama generale riflette una serie di Leitmotiv fondamentali del romanzo, e dell’intero universo di Ender e dei suoi amici, che appaiono ricchi di spunti per un’analisi ideologica, psicologica ed antropologica della cultura da cui i relativi prodotti provengono. Tutta la tensione narrativa e ancor più tutti i relatvi “dilemmi filosofici”, come è ovvio molto più sviluppati nel libro ed ancor più nelle opere successive, ruotano infatti intorno ad una serie di contrapposizioni irriducibili che sono tipici della cultura stessa.

Quella fondamentale naturalmente sta nell’universalismo della medesima. Ciò impone un’esigenza viscerale per la distruzione dell’Altro, la cui stessa esistenza rappresenta una minaccia intrinseca ed irrisolvibile, cosa metaforicamente e significativamente rappresentata nella storia dall’inesistenza di una possibile lingua di comunicazione con i formics (chiamati da tutti Buggers, dispregiativo che richiama sia cimici da schiacciare che “canaglie” nel senso ad esempio in cui si parla di “rogue States”) sia dalla struttura costituzionalmente organica, e perciò “impermeabile”, della loro società. La “pace”, ciò che tutti vorrebbero, è perciò impossibile, e la “guerra per porre fine a tutte le guerre” (in particolare con la definitiva distruzione di ciò che non è più o meno occasionalmente un nemico, un avversario, un rivale, ma il Nemico) è l’unica alternativa realistica.

Ender's Game: il libro

Ender’s Game: il libro

Le velleità inclusive di una visione del mondo universalista sono d’altronde a disagio rispetto a tale prospettiva ed alla possibile legittimazione del conflitto che essa rischia di introdurre, e tendono appunto risolvere la questione escludendo l’Altro, prima che in termini pratici dalla faccia dell’universo, da ogni possibile appartenenza al mondo degli interessi cui sia possibile attribuire un valore. Tipicamente la fantascienza americana e molta cultura popolare ad essa legata risolve il problema definendo l’Umanità “legittima” ed il relativo criterio di discriminazione e di lealtà implicita sulla base dell’“appartenenza alla specie”, ed acquisendo così sufficiente buona coscienza relativamente a qualsiasi ipotetico conflitto di interessi degli “umani” con mutanti, macchine, dèi, replicanti, animali, androidi, extraterrestri, spiriti, intelligenze artificiali, e così via.

Come ho tentato anche personalmente di fare in un breve saggio intitolato Intelligenze artificiose, è facile d’altronde decostruire tale idea – che del resto non ha reali riscontri empirici dato che la storia racconta di uomini, animali domestici, dèi e macchine che non tanto lottano in quanto tali tra di loro, ma piuttosto lavorano insieme nel combattere avversari collettivi di composizione essenzialmente analoga – come l’ennesimo avatar di una mentalità più generale che parte dalla cristianità rispetto ai “pagani”, agli “infedeli” e ai “selvaggi” e che continua con versioni più moderne ben note.

Orson Scott Card non si fa però le cose così semplici, ed infatti Ender non solo è destinato a soffrire di tutta una serie di crisi di coscienza ma (riprendendo anche in questo una onorata tradizionale occidentale), si trasformerà nello “Speaker for the Dead”, nel cantore nostalgico della razza al cui genocidio ha decisivamente partecipato, aggirandosi per la galassia con un uovo di regina che rappresenta il suo bisogno di espiazione per aver fatto quanto pure resta indiscutibilmente “necessario”, e la possibilità almeno teorica di ricreare la memoria dei formics in una qualche riserva indiana o museo etnografico.

In questo la figura di Ender fa riferimento ad una seconda difficoltà fondamentale che costituisce un argomento fondamentale della storia. Nella prospettiva dominante in discussione è infatti moralmente indispensabile presupporre che un guerriero, un combattente sia uno psicopatico, un bruto o almeno una “macchina”. Da ciò discende, di converso, che chi non lo è non può per definizione essere un combattente efficiente. E la retorica tradizionale su “il nostro mestiere è la pace”, sul soldato riluttante che tra una confessione ed un soccorso ad un cucciolo in difficoltà fa quello che gli ripugna per la durata della sua sacrosanta indignazione, non ha più corso neppure a livello di cultura popolare. Così che quest’ultima rispecchia il pregiudizio pratico, specie americano, che ritiene che psicopatici, bruti e macchine debbano essere il prodotto finale del processo di selezione ed addestramento dei militari, come proprio il cinema ci ha raccontato ormai infinite volte in tutte le salse possibili, da Full Metal Jacket a Codice d’onore, da Rambo a Ufficiale e gentiluomo (!) a Platoon a Black Hawk Down, mentre resta resta largamente incomprensibile come in altre culture il mestiere delle armi venisse considerato eminentemente compatibile con rispetto, sensibilità, raffinatezza, formalismo, serenità, etc., e diventa routine persino a livello di videogiochi che la volgarità, il disprezzo, l’insulto e il complesso di superiorità siano il tratto distintivo di tale mestiere.

Enders-Game-Trailer

D’altronde, l’autore ha ben presente lo sfortunato problema rappresentato dal fatto che psicopatici, bruti e macchine siano tendenzialmente degli idioti, soprattutto quando sono loro richieste valutazioni strategiche relative alla crisi da risolvere – ad esempio, nella immancabile sottovalutazione delle capacità di iniziativa e di reazione del Nemico e nella incapacità di “mettersi nei suoi panni”. Peggio, sempre nell’universo ideologico da cui nasce il romanzo, seguire psicopatici, bruti e macchine oltre che inefficace è per definizione immorale. Come risolvere la questione?

Nella storia, Ender rappresenta un superamento dialettico dell’alternativa rappresentata dall’aggressivo ma sociopatico fratello primogenito, Peter, e dalla percettiva ma pacifica sorella mediana, Valentine sotto vari profili. Innanzitutto, interviene ad assolverlo e a renderlo capace di svolgere il suo compito – con un eloquente parallelismo con sviluppi recenti – il condizionamento cui viene sottoposto dall’ufficiale incaricato e soprattutto il fatto che viene mantenuto in una sfera di “virtualità” all’oscuro del fatto che sta combattendo una guerra “vera”, uccidendo alieni reali e sacrificando effettivamente la vita di commilitoni. Secondo, la sua posizione di membro più giovane della sua famiglia e di cadetto tra i più giovani dell’élite addestrata nella Battle School lo rende di per sé strumento relativamente “innocente” di ciò che chi gode nel suo mondo di una consapevolezza superiore non saprebbe o vorrebbe fare.

Ma tale superamento, l’autore ci avverte, non può che essere parziale, apparente, momentaneo, al punto che proprio il pur inconsapevole compimento della sua missione finisce per imporre ad Ender l’esilio.

Perché alla fine con tale compimento Ender stesso è diventato parte dell’Altro di cui ha determinato la distruzione, ed un suo ordinario ritorno sulla Terra e nell’Umanità “legittima” è divenuto impossibile, per il “bene di tutti” e persino per la sua “coscienza”.

Stefano Vaj

You may also like

Commenta

Redazione

Chi Siamo

Il Primato Nazionale plurisettimanale online indipendente;

Newsletter

Iscriviti alla newsletter



© Copyright 2023 Il Primato Nazionale – Tutti i diritti riservati