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Italia Eterna: altro che 150 anni, l’Italia ha 21 secoli

by La Redazione
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Augusto tra Italia e Roma

Roma, 3 apr – Notoriamente il Metternich definì l’Italia agognata dai patrioti pre-risorgimentali come un’espressione geografica, e non come una nazione. Pur riduttiva, la definizione era corretta dal punto di vista geo-politico. Quasi viene da interrogarsi, a oltre un secolo e mezzo dall’unità del paese, e nel bel mezzo di un’emergenza inaudita, se non sia ancora calzante, al di là delle retoriche pseudo-patriottiche tanto poco credibili quanto i loro nuovi, terrorizzati propugnatori in tempo di coronavirus. I quali mai hanno dedicato ai concetti di suolo, sangue, patria, nazione e sovranità il minimo interesse nei decenni precedenti. In realtà il concetto etnico di Italia, come popolo e nazione è antichissimo, ben più di quanto si pensi.

Le origini dell’Italia

Antioco di Siracusa fa risalire l’origine del nome Italia a un certo principe Italo, il quale, dopo aver sottomesso e unificato il territorio compreso tra lo stretto di Messina e i golfi di Squillace e Sant’Eufemia (cioè la punta estrema della Calabria), avrebbe ribattezzato col suo nome la regione. Si tratta di una leggenda (ad ogni modo ripresa e diffusa da Aristotele, che un secolo dopo Antioco la riporta nella Politica), che però circoscrive in maniera molto precisa l’estensione geografica della regione allora indicata come Italia.

Ellanico, sempre nel V secolo a.C., racconta un’altra leggenda, secondo cui Eracle, traversando l’Italia per ricondurre in Grecia il gregge rubato a Gerione, durante la ricerca di un capo di bestiame fuggito, dopo aver saputo che secondo l’idioma locale la bestia aveva nome vitulus, avrebbe deciso di ribattezzare l’intera regione vitalian. Se da un lato è interessante vedere come la regione in questione sia la stessa di quella menzionata da Antioco (ovvero la punta estrema della Calabria), dall’altro è ancora più interessante la strada dell’origine del nome che tale mito suggerisce. Sembra infatti possibile come la forma “Italia” si spieghi con la caduta della “V” iniziale nella pronuncia delle genti della Magna Grecia. E che derivi effettivamente dall’osco viteliu (poi traslato nel greco vitalian-italia e infine accolto nel latino), a indicare come il territorio fosse ricco di bovini; il toro era per l’appunto l’effigie delle antiche monete osche, con l’epigrafe viteliu, oltre che animale totemico di varie popolazioni italiche ed emblema di legioni.

Varrone si riconnette a questa strada scrivendo: quoniam boves Graeca vetere lingua italoi vocitati sunt, quorum in Italia magna copia fuerit, ovvero «poiché anticamente in lingua greca i bovini erano chiamati “italoi”, dei quali in Italia vi era grande abbondanza». Italia è stata considerata in tutto il mondo antico mediterraneo terra dell’abbondanza, della vita, dei buoi. La probabile origine osca del nome e della regione di appartenenza pare confermata dal successivo allargamento geografico del concetto, che va a coincidere in maniera assai precisa con l’espansione degli Osci nel sud Italia. Già Erodoto, nelle Storie, colloca in Italia la città di Taranto, mentre nel IV secolo per “Italia” si intende l’intero mezzogiorno continentale, fino a sud di Paestum sulla costa tirrenica.

Roma e Italia

Ma l’allargamento più consistente, e determinante per la storia futura, si ebbe ovviamente con la dominazione romana, a partire dal III secolo. Già nei primi decenni del secolo, quando di fatto l’intera penisola fu amministrativamente unificata sotto il governo repubblicano di Roma, e i molti popoli che l’abitavano (Latini, Sabelli, Etruschi, Apuli e Greci in particolare) si ritrovarono tutti a combattere sotto le insegne romane con il comune nome di “togati” (vale a dire “uomini della toga”, l’abito più usato dai cittadini di Roma), il nome Italia finì per indicare l’intero territorio compreso tra i fiumi Arno ed Esino a nord e lo stretto di Messina a sud[1].

A proposito del dibattito sulla non sovrapponibilità dei concetti di stato Romano ed Italia, secondo il Pallottino esiste un rapporto, che oggi diremmo dialettico, di opposizione ο di convergenza, fra Italia e Roma, per cui l’Italia diveniva un fattore «interno» ed essenziale della storia di Roma[2]. È significativo a questo proposito che già Theodor Mommsen, nella sua famosa Römische Geschichte, avesse dichiarato esplicitamente di voler raccontare piuttosto la storia dell’Italia che non la storia di Roma, in quanto Roma aveva dato forma ad una materia italica che è quanto dire che il rapporto fra Italia e Roma veniva inteso decisamente nel senso della continuità e della concomitanza, così come si era presentato agli occhi dei Romani dell’età di Augusto.

La «guerra sociale»

Se il nome ed il concetto geografico di Italia affondano dunque nei tempi primordiali degli stanziamenti sulla penisola, dal punto divista politico il nome emerge per la prima volta nel 91 a.C., quando nell’Italia centrale numerosi popoli, soggetti a Roma ma esclusi dai privilegi della cittadinanza, si ribellarono al dominio romano e diedero vita alla prima esperienza statale denominata Italia. Presso la città di Corfinium (oggi Corfinio accanto a Sulmona, AQ) si riunirono Marsi, Peligni, Marrucini, Vestini, Piceni, Sanniti, Lucani e Apulii e lì decisero di fondare un nuovo Stato. Il primo denominato Italia. L’antica Corfinium fu ribattezzata Italica e venne elevata a Capitale (Caput imperii sui Corfinium legerant atque appellarant Italicam[3]). Elessero a proprio simbolo il toro, animale la cui etimologia riconduce alla stessa radice della parola Italia, come visto sopra. La loro zecca batté per due anni una propria nuova moneta. Possiamo dunque dire che Corfinium è stata la prima capitale d’Italia. E per visitare la cittadina, si entra nel centro storico passando per la, appropriatamente denominata, Via Italica. Le monete arrivate da quella zecca a noi mostrano da un lato il volto d’Italia vittoriosa cinta d’alloro con sotto incisa la parola “Italia” e dall’altro gli otto popoli che prestano giuramento d’unione, oppure la testa diademata dell’Italia.

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Il conflitto degli italiani con Roma, che prende storicamente il nome di guerre sociali, durò due anni e terminò con la concessione da parte di Roma della cittadinanza a tutti i popoli italici, con l’emanazione della Lex Plauta Papiria. Fu una legge di portata storica. Per la prima volta tutti i residenti in Italia che, nel termine di due mesi, avessero dichiarato ad un magistrato romano di voler diventare cittadini avrebbero ottenuto la cittadinanza romana.

Augusto imperatore

Augusto è il vero Padre della Patria, non solo Romana o Italiana, ma Europea. Le riforme da lui introdotte dopo la sua definitiva vittoria nella guerra civile, plasmarono per sempre le forme dell’Occidente. Ai fini dell’argomento della presente collana a noi interessa in particolare il giuramento prestato ad Ottaviano nel 32 a.C., quando ormai lo status triumvirale era di fatto superato, e da lui ricordato solennemente: iuravit in verba mea tota Italia[6]. Con queste parole Augusto intendeva chiaramente suggerire che la guerra con cui si si sbarazzò di Marco Antonio non era attribuibile a una sua iniziativa ma gli fu imposta dalla libera e spontanea volontà della nazione italica nella sua totalità. Il giuramento da lui così ricevuto rimase importante per Augusto anche se la sua natura e le sue origini risultano controverse. Era l’Italia, dunque, che come Roma e a fianco di Roma, assumeva i tratti identitari di terra patria e richiedeva il rafforzamento di uno status territoriale specifico che la distinguesse dal resto del mondo romano.

Durante il principato di Augusto l’Italia venne ancor più privilegiata e suddivisa al suo interno in undici Regiones: Latium et Campania; Apulia et Calabria; Lucania et Bruttii; Samnium; Etruria; Picenum; Umbria; Aemilia; Venetia et Histria; Liguria; Transpadana, che ne rimarcavano maggiormente l’unicità all’interno del panorama imperiale. Inoltre, l’Italia, a differenza dei territori provinciali, era governata e retta direttamente dal Senatus Romanus e tale status permetteva ai magistrati romani di esercitare l’Imperium Domi (potere di polizia) esclusivamente all’interno dei confini italici, differentemente all’Imperium Militiae (potere militare) che veniva esercitato nelle provincie, al di fuori dell’Italia. Gli abitanti liberi della Penisola erano tutti cittadini romani e non pagavano l’imposta fondiaria (Ius Italicum), riservata invece ai cittadini dei territori provinciali che erano considerati proprietà del popolo romano, e questa prerogativa andava riconosciuta attraverso il pagamento di tale imposta.

I sacri confini dell’Italia

Con questa riforma amministrativa voluta da Augusto nel 10 a.C, il Settentrione venne incluso ufficialmente nella provincia italica, facendo coincidere i confini politici e geografici all’incirca con quelli attuali, fatta eccezione per le isole maggiori, che furono incluse sotto Diocleziano nel 292. La riforma augustea portò con sé elementi interessanti. Il primo è che, varcando due millenni, i suoi confini corrispondono quasi esattamente a quelli del Regno d’Italia dopo la conclusione vittoriosa della Prima Guerra mondiale, guerra giustamente definita da Sandro Consolato come l’ultima nostra guerra d’indipendenza (a ovest fino a Nizza ed il fiume Varo; l’arco alpino dalle  Marittime, Cozie, Graie, Pennine e fino alla Retia; poi alta valle dell’Adige, che quindi era già romano, Carnia ed Istria fino a Lubiana e Fiume). In secondo luogo la significazione originaria del termine regio, la cui etimologia, pur non escludendo il concetto del reggere e dunque del governo, è da ricondurre essenzialmente all’idea di regolarizzazione dello spazio, del tracciare dei limiti (attraverso linee rette) nelle estensioni di terreno e, latamente di territori. Quindi metafisicamente Augusto è il nuovo Romolo nel tracciare i confini sacri dell’Italia.  Nel concreto l’assetto regionale dell’Italia è sopravvissuto ad Augusto, per tutta la durata dell’Impero da lui costituito, anche quando la Penisola è stata ridotta a Provincia e anche oltre la fine del mondo romano, durante l’Età tardo-antica e l’Alto e il Basso Medio Evo, fino alla Modernità.

Infine, fruendo i circa 300 municipi del tempo di ampia autonomia locale, avviò il processo storico del regionalismo italiano, applicando Augusto pragmaticamente una visione di governo modernissima (magari averla oggi in Europa…) che nel nome di una specifica identità etnica riconosceva il significato delle tradizioni locali di cui ogni popolo era depositario. È coeva l’immagine dell’Italia delle campagne che si affiancò a quella delle città nelle laudes virgiliane[7] e con la personificazione dell’Italia turrita rappresentata nella cosiddetta Gemma Augustea.

Padre Dante

È in Dante Alighieri che possiamo e dobbiamo riconoscere il vero “padre della patria” italiana. Egli delimitò in forma definitiva i confini geografici della penisola, dandone una perfetta, plastica visione: si come Arli ove Rodano stagna si come a Pola presso del Quarnaro che Italia chiude e i suoi termini bagna[8]. Il sommo poeta, per primo, riconobbe solennemente l’unità linguistica, storica e culturale dei suoi abitanti, ovvero l’unità nazionale. Attraverso la sua opera letteraria e politica, Dante non riconobbe tanto tale unità sulla base di un pregresso storico, quanto pose le vere e proprie basi affinché essa si realizzasse compiutamente nei secoli a venire. Sono perciò gli scritti danteschi, in particolare il De Vulgari Eloquentia, il De Monarchia e, ovviamente e soprattutto, il Poema Sacro, il vero atto fondativo del concetto di Italia, dell’italianità e della coscienza di nazione. Un concetto così definito e potente da non essere mai più messo in discussione, anche quando i continui domini stranieri sopirono e seppellirono qualsiasi aspirazione alla concreta realizzazione di tale unità.

Vittorio de Pedys


[1] R. Lestini, 2017.

[2] M. Pallottino, 1976.

[3] Velleio Patercolo, II, 17.

[4] Moneta conservata presso Bibliotheque Nationale de Paris.

[5] Moneta conservata al Vittoriano e Muso archeologico di Corfinio.

[6] Res Gestae Divi Augusti, 25: «L’Italia nella sua interezza prestò giuramento per me».

[7] Georg., II, 155-157.

[8] Inferno, IX

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