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Venere di Milo: la realtà e il mito (seconda parte)

by La Redazione
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Seconda e ultima puntata dell’inchiesta storica sulle sculture antiche. La precedente puntata:

Roma, 20 ago – Il precedente articolo dedicato alla Venere di Milo si concludeva un paragone un po’ azzardato, ovvero quello tra l’Afrodite di Milo e l’Afrodite Cnidia. Se la prima è un originale greco, l’Afrodite Cnidia è una copia romana ed in quanto tale potrebbe apparire inferiore perché “meno genuina” nell’invenzione, dunque di inferiore valore.

Ma quando nasce il concetto di “originale” e di “copia”?

Durante il Rinascimento, quando si doveva giudicare un’opera non lo si faceva attraverso uno studio metodologico che poteva verificare l’effettiva originalità, ci si basava allora sull’osservazione delle vesti, la statuaria greca era infatti famigerata per il così detto “panneggio bagnato”, una caratteristica distintiva, insieme alla nudità, della statuaria greca; ma non vi era un vero e proprio metodo, ci si basava esclusivamente sulla qualità dell’opera. Ad esempio quando Michelangelo considerò la Giunone Cesi come un originale greco, questa divenne assai celebre e nessuno la mise mai in discussione. L’importanza di questa distinzione tra originale e copia nasce con la “mania del collezionismo” sorta proprio in questi secoli, dove i collezionisti non solo incaricavano gli artisti per la produzione nuove opere, ma cercavano di appropriarsi anche degli originali dell’Antica Grecia, allora circondata da aurea mistica e mitica.

Laocoonte e i suoi figli: originale greco o copia romana?

Una metodologia di giudizio vera e propria nascerà circa tre secoli più tardi, insieme alla “Critica d’arte”. Un primo metodo di giudizio lo fornisce Johann Joachim Winckelmann, con uno studio approfondito delle opere della collezione vaticana. Ma già Joseph Addison e Jonathan Richardson, insieme al fratello, cercarono una metodologia prima ancora di Winckelmann. Soprattutto Richardson aprì enormi dibattiti rifiutando l’originalità dell’Apollo del Belvedere o dell’Ercole Farnese o, ancor più, del Laocoonte (la cui originalità è dubbia tutt’ora), allora capolavori considerati originali e pertanto intoccabili ed indiscutibili. Il critico d’arte inglese faceva uso delle fonti testuali dell’epoca, come gli scritti di Plinio e Pausania, per verificare le iscrizioni dei nomi degli artisti nelle opere, se non vi era una corrispondenza tra le fonti e le iscrizioni ecco che nasceva una incongruenza che apriva di conseguenza un dibattito sull’opera in questione. Un metodo un po’ semplicistico ma quasi rivoluzionario per i tempi.

Sempre Richardson, parlando di quadri ma il discorso è trasponibile alla scultura, parla nelle sue Descriptions formulando una prima concezione di originale, imitazione e copia: “Un quadro è originale non solo quando è eseguito d’invenzione o immediatamente ispirato dalla natura; ma lo è altrettanto quello che deriva da un disegno o da uno schizzo, qualora non ci si proponga di seguirli in tutto e ce ne si serva soltanto come mezzi per imitare meglio la natura, presente o assente.”. Ecco che queste tre parole, collegate alla critica d’arte, cominciano ad individuare dei parametri che seguiranno sviluppi autonomi dalle formulazioni del conoscitore inglese: “l’originale è un eco della natura, la copia è l’eco di questo eco”, queste finiranno per dare autonomia e dignità anche all’arte romana.

È interessante a questo punto citare Marcello Barbanera, docente di archeologia classica presso la Sapienza di Roma, che nel suo libro “Originale e copia nell’arte Classica” fa un’interessante osservazione in merito al dibattito della critica: “Come si vede il punto non è costituito dalla consapevolezza o meno della pratica del copiare o dell’esistenza di copie nel mondo antico, ma dell’ammissione concreta di considerare la maggioranza delle sculture allora conosciute come copie romane di originali greci”.

Christian Gottlob Heyne, archeologo e filologo tedesco, sarà il primo a comprendere l’importanza delle copie degli originali classici, perché ciò che interessava principalmente non era tanto l’opera d’arte antica in sé, materialmente, quanto il pensiero dell’artista, l’evoluzione del modo di concepire una scultura, ed ecco che le “copie” sono fondamentali per dare un metro di comparazione, aiutando inoltre a spiegare altri capolavori.

Tornando a Winckelmann, le sue enunciazioni godettero di grande fortuna donando al critico una fama enorme, queste consistevano nel giudicare le opere d’arte in base al principio di “nobile semplicità e quieta grandezza” contenuto nelle opere classiche, che fuggivano da ogni passione ed emozione troppo grande elevandosi “spiritualmente” ad una dimensione superiore di calma e grandezza divina.

Sarà il celebre pittore Anton Raphael Mengs, insieme anche ad altri critici come Gotthold Ephraim Lessing, a superare il pensiero di Winckelmann. Mengs riconobbe molte opere celebri come “copie”, ad esempio oltre a giudicare l’aspetto formale dell’Apollo del Belvedere, la sua critica si basava su una questione di natura tecnica e storica, difatti notò che il marmo di cui è composta la scultura è originario di Carrara, un marmo usato solo a partire dall’età imperiale, per tanto l’opera non è anteriore alla nascita dell’impero ed è quindi un’opera post-ellenica.

Molte opere vennero riconosciute come copie e vennero ingiustamente “schifate” (letteralmente), un esempio è quando Pio VI fece esportare il gruppo di Niobe a Firenze poiché “il celebre Mengs” aveva dimostrato che le statue non erano altro che copie.

L’originalità della copia romana e moderna

L’autonomia di un’arte romana vera e propria comincia a sorgere con le teorie del nuovo secolo. Già Gianbattista Visconti descrisse l’attività romana come “uno spirito d’imitazione: esso aveva eccitati i più antichi artefici a copiar la natura: esso portò coloro che li seguirono a imitare la natura e l’arti”. Le copie si liberarono progressivamente di questo termine degradante della loro attività, poiché non erano più a immagine della statua originale ma “conservando l’attitudine di quell’originale ammirato, cercava di perfezionarne le proporzioni, di dar più grazia a ciascuna delle parti, di variare ancora l’insieme con qualche cangiamento”, il Visconti concluderà il pensiero proprio prendendo come esempio la statuaria delle Afroditi che abbiamo visto nella prima parte.

L’autonomia di quelle che chiamiamo “copie” romane si avvertirà in maniera più netta con la  Meisterforschung, una metodologia di ricerca secondo cui ogni pezzo di copia romana deriva da un originale greco descritto dalle fonti ma ormai andato perduto, dunque si guarda a più statue romane per cercare di ricostruire un originale perduto. Il metodo, ideato da Heinrich Brunn, si basa su una presupposizione importante: Se per ricostruire più di un originale greco bisogna ricercare vari pezzi in più copie, quest’ultime presentano inevitabilmente quei “cangiamenti” originali che il Visconti ha precedentemente accennato e che non possono ricostruire l’originale greco, perché originali anch’essi. Non solo ma questo metodo di ricerca fu duramente criticato, perché, citando Reinhardt Kekulé, le copie romane erano “Stilisticamente e cronologicamente lontane”. Dunque Kekulé rifiutando il metodo della Meisterforschung, automaticamente sancisce un riconoscimento della statuaria romana non più come copia, ma come imitazione di qualità autonoma.

Rimane tuttavia una convinzione qualitativa secondo cui l’originale greco sia superiore a quello romano, una convinzione winckelmaniana che portò a declassare numerose opere che venivano decantate per la loro bellezza fino a quando non vennero smascherate nella loro origine romana.

Gli antichi, come abbiamo visto, non avevano la nostra stessa concezione di “originale” e “copia” di un’opera d’arte, nonostante questa evoluzione dei suddetti termini la critica europea ha comunque promosso esempi chiari di “copie” o “imitazioni”.

Esempi di grandi autori… che hanno “copiato”.

Citando nuovamente il professor Marcello Barbanera: “Riflettendo sul problema, sono partito dalla mia quotidianità: ascolto molto spesso una registrazione delle Variazioni Goldberg nell’esecuzione di Glenn Gould. Scrivendo questo testo mi sono chiesto: ho mai pensato alle Variazioni Goldberg, alle Diabelli o alle numerosissime altre in musica pensando che Bach, Beethoven o Liszt o Busoni avessero spudoratamente copiato e che ora dovrei ripulire lo scaffale dei miei cd da tutte queste profane presenze? Francamente no, un esempio è dato dalla sonata di Beethoven ‘Al chiaro di Luna’ che presenta chiaramente molte assonanze con i pezzi orchestrali della morte del Commendatore del Don Giovanni di Mozart”. Si sa per certo che Beethoven ha preso ad ispirazione alcune parti per la sua “Sonata al chiaro di Luna,” ma per questo si può giudicare la mitica sonata come “copia” invece che come capolavoro? Il quesito che Barbanera pone è chiaro e diretto, per quale motivo facciamo delle differenze all’interno delle opere che definiamo “copie”. Altri esempi, in pittura e scultura, ci vengono dati da due opere.

botticelli nascita di venereLa prima è indubbiamente la famosa “Nascita di Venere” di Sandro Botticelli, nella quale è inevitabile appurare il riscontro della figura disegnata dall’artista fiorentino e le opere greco-romane che ritraggono il medesimo soggetto. Anche Canova ha voluto porre la sua firma a questa straordinaria produzione, ritraendo la Venere italica grandemente elogiata da canova venere italicaWinckelmann, poiché essa rappresentava l’ideale precedentemente enunciato di “nobile semplicità e quieta grandezza”, lontana dal coinvolgimento delle passioni e delle emozioni. Tuttavia, pur nella straordinarietà dell’opera, essa pone le sue basi ad imitazione o, più volgarmente “copia”, di una produzione di origine greca.

Ci si domanda a questo punto quale è la differenza tra Canova, Botticelli e gli artisti romani, autori dell’Afrodite Cnidia, tanto da permetterci di poter decantare una sua superiorità nei confronti degli originali greci, quali l’Afrodite di Milo e de’ Medici. Si arriva così alla conclusione che non solo non si possono giudicare le opere romane come semplici “copie”, ma come produzioni originali e distinte di un’arte romana autentica, ma si rafforza anche il paragone fatto all’inizio dell’articolo nel confronto estetico delle due statue: L’Afrodite di Milo, un originale greco e l’Afrodite Cnidia, un originale romano.

Davide D’Anselmi

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Venere di Milo: la realtà e il mito (seconda parte) | NUTesla | The Informant 21 Agosto 2017 - 12:02

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