Roma, 29 ago – La Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc) aumenterà i prezzi dei microchip fra il 10% ed il 20% con efficacia fra la fine del 2021 e l’inizio del 2022. Questo è quanto emerge da un recente articolo del Wall Street Journal. Per comprendere l’importanza di questa notizia basterà dire che i taiwanesi (insieme a Samsung) detengono il 70% del mercato della produzione dei semiconduttori. Inoltre, il colosso fondato da Morris Chang ha tra i suoi clienti Apple e Intel. Con questa scelta, però, la Tsmc non dovrebbe interessare solo gli amanti degli iPhone. Vediamo perché.
L’importanza del microchip
Intanto cerchiamo di capire di cosa stiamo parlando. Il microchip è un supporto rigido di materiale semiconduttore, di ridottissime dimensioni, sul quale è stampato un circuito elettronico integrato che ospita il processore dei calcolatori elettronici. Si tratta di elemento semplicissimo, che ha l’unico scopo di trasmettere le informazioni base per illuminare lo schermo di un qualsiasi smartphone, o di un monitor di un cruscotto. Ergo, senza questa componente l’intera produzione di una miriade di prodotti si blocca. Questi semiconduttori sono la struttura materiale che permette il funzionamento di televisori, smartphone, automobili, frigoriferi.
Detto ciò, non possiamo comprendere il motivo del possibile rincaro senza prima soffermarci su quello che gli esperti hanno chiamato “chipcrunch” ossia il taglio della produzione di questo prezioso wafer di silicio.
Come nasce il chipcrunch
Facciamo un piccolo passo indietro. L’avvento della pandemia ha completamente travolto le nostre abitudini. Milioni di lavoratori hanno sperimentato il lavoro a distanza. Questo ha fatto crescere la domanda di beni legai all’informatica. Avevamo tutti bisogno di monitor e pc più potenti non solo per lavorare da casa ma anche per il tempo libero. Ecco a cosa è dovuto il picco della domanda di microchip. Tuttavia, i principali produttori di questo supporto elettronico (come la coreana Samsung e la taiwanese Tsmc) hanno preferito tagliare la produzione o quantomeno non l’hanno incrementata abbastanza.
Difficile credere che si sia trattato di un semplice errore di valutazione. In realtà, se vogliamo essere cattivi, la grande e disperata richiesta di semiconduttori ha spinto le aziende a pagare qualsiasi cifra pur di rifornirsi. Oggi, quindi se i taiwanesi decidono di alzare i prezzi possono farlo. Il microchip va considerato come una materia prima che decide la sorte della produzione industriale in tutto il mondo.
L’impatto sull’industria automobilistica
Senza microchip si sono bloccate le catene di montaggio. Ma non ci riferiamo solo a smartphone o pc. La crisi ha colpito soprattutto l’industria automobilistica la cui produzione è legata per il 60% ai semiconduttori. In un’auto il numero di microchip previsti è pari a circa tremila unità. Purtroppo però la Tsmc produce solo il 3% dei chip per l’industria automobilistica, mentre il resto è destinato alle aziende di telefonia, pc e telecomunicazioni. Ecco perché l’automotive si trova nell’occhio del ciclone.
La crisi non ha risparmiato nessuno. Stellantis, Mercedes, Renault, Jaguar, Peugeot e Volkswagen “lavorano a singhiozzo”. In tutto il globo interi stabilimenti sono rimasti chiusi per diverse settimane. In Italia possiamo citare il caso del sito ex Fiat di Melfi. Si è rivelata esatta la previsione dell’ad di Volkswagen Ralf Brandstatter: “La situazione rimarrà tesa, l’impatto della carenza di microchip e di semiconduttori si farà sentire anche nei prossimi mesi”. La succitata notizia del Wsj in questo quadro crea il cosiddetto effetto farfalla: il battito d’ali del “lepidottero” a Taiwan può provocare un uragano dall’altra parte del mondo. La Casa Bianca, però, ha già preso da tempo delle contromisure, anche prima dello scoppio della pandemia.
La partita geopolitica
Trump, infatti, nel 2019 riteneva che quella dei semiconduttori fosse una questione di sicurezza nazionale. Ebbene sì, anche l’industria di armi fa ampio uso di microchip. Poi Biden, con la scusa della pandemia, lo scorso febbraio ha “inserito” 50 miliardi di dollari nel pacchetto di stimoli da duemila miliardi destinandoli alla ricerca. Il disegno di legge si chiama Chips for America Act. Un provvedimento che fornirà incentivi pubblici all’industria di chip. L’obiettivo è rendere gli Usa più indipendenti dall’industria straniera.
Possiamo parlare di protezionismo? Sicuramente sì, ma non solo. Si tratta di un forte intervento pubblico che, per chi è poco attento, può sembrare un’eresia nella nazione che difende il libero mercato. In realtà Washington ha sempre sostenuto l’industria nazionale per espandere il proprio peso geopolitico. La Silicon Valley non è nata per caso. Ed è stato lo stesso Biden ad ammetterlo. Rafforzare l’industria nazionale è dunque condizione necessaria (anche se non sufficiente) per rafforzare la propria sovranità politica. In caso contrario, l’Europa e l’Italia saranno condannati ad essere la periferia del “nuovo capitalismo”.
Salvatore Recupero