Roma, 19 nov – Franza o Spagna purché se magna. Ma il banchetto, a questo giro, è ormai sulle spoglie della nostra economia. Le vicende di Tim (e prima di Telecom) degli ultimi anni si possono racchiudere in questi pochi concetti. Concetti duri, come una realtà che parla di stranieri che banchettano alle nostre spalle. Erodendo, giorno dopo giorno e nell’indifferenza del governo di turno, pezzi di sovranità.
Ricapitoliamo quanto successo negli ultimi giorni. Il Cda di Tim, dopo aver sfiduciato l’amministratore delegato Amos Genish, ha nominato al suo posto Luigi Gubitosi. Uno smacco in piena regola per i transalpini di Vivendi, maggioranza relativa nell’azionariato (24%), letteralmente messi alla berlina dagli americani del fondo Elliott che pur controllano solo il 9% delle azioni. Finiscono così, almeno per il momento, i sogni di gloria della Francia che con Tim pensava di aver calato l’asso.
La notizia non è comunque buona, almeno per due motivi. Anzitutto per la società in sè, che nel corso degli ultimi decenni ha perso buona parte del suo valore. La colpa è da ricercarsi nel peccato originale della prima partita per il suo controllo, che ha caricato Tim di debiti. Una massa miliardaria che non ha certo beneficiato delle successive battaglie, quelle che hanno portato al timone prima gli spagnoli, poi i francesi e adesso chissà.
Nel frattempo, ha fatto capolino nell’azionariato anche Cassa Depositi e Prestiti. Una presenza ancora corredata dal punto interrogativo. Cosa vuole fare la “corazzata” (ma con in verità poche armi a disposizione) del ministero dell’Economia? Mistero. Così come misteriosa è la posizione del governo, che in questi giorni non ha mai espresso pareri decisivi in merito alla vicenda.
Avrebbe dovuto farlo? Eccome, e veniamo così al secondo motivo. Tim è, insieme ad Eni, Enel e Leonardo, una delle quattro società più importanti dal punto di vista strategico per la nostra economia. Attorno a Tim ruotano infatti, ad esempio, molti dei progetti per il cablaggio dell’Italia con la fibra ottica. Senza poi considerare il tema delle reti 5G di prossima generazione dove un colosso come la cinese Huawei, con tutto ciò che ne consegue, è pronta a giocarsi le proprie carte. Ce ne sarebbe, insomma, per ritenere giusto e doveroso un intervento da parte del governo. Se non altro, vista la posta in gioco, per chiarire una volta per tutte quali sono le sue priorità in materia di sovranità economica. Ammesso e non concesso che queste esistano.
Filippo Burla
La sovranità passa (anche) da Tim. Ecco perché serve nazionalizzarla
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1 commento
Negli anni ’90, quanto venne privatizzata, Telecom operava in regime di totale monopolio e disponeva dell’unica infrastruttura di rete esistente; tuttavia il governo Prodi decise per la privatizzazione di un’azienda che evidentemente non era ritenuta strategica.
Ad oltre 20 anni di distanza, l’infrastruttura di rete, ovvero il grande asset di cui Telecom è proprietaria, sta diventando rapidamente obsoleta. Logico la vecchia rete è fatta di doppini in rame, mica di fibre ottiche.
Questo grande asset è destinato a perdere valore nel tempo fino a diventare un solo un costo. Difficile fare previsioni sui tempi, tanto prima i progetti di cablaggio di Open Fiber (controllata di Enel) saranno realizzati, tanto prima la vecchia rete in rame perderà valore.
Per Telecom l’ideale sarebbe trovare un fesso disposto a comprarsi l’infrastruttura di rete, ovvero il “prezioso” asset che ora vale ma che tra qualche anno sarà solo un costo (per via delle spese di manutenzione).
Chi si fa avanti?
Ovviamente lo stato, determinato a rientrare un possesso di asset ritenuto improvvisamente strategico. Così dopo la privatizzazione dei profitti, degli anni ’90, assisteremo adesso alla socializzazione delle perdite (future).
Ironia della sorte sembra che l’esecutivo voglia che Telecom scorpori l’infrastruttura di rete per poi fondere la società risultante proprio con Open Fiber. Starace, ad di Enel, a ribadito più volte di non volersi caricare quella zavorra, ma la decisione non dipende da lui.