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Afghanistan o Pacifico? Ecco il “Grande gioco” geopolitico nel XXI secolo

by La Redazione
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Roma, 28 nov – Il 15 agosto 2021 rappresenta una di quelle date destinate a rimanere scolpite nella storia, al pari del 28 giugno 1914, del 9 novembre 1989 e dell’11 settembre 2001. L’incruento ingresso nella martoriata capitale afgana delle orde dei barbuti guerrieri islamici, oltre a seppellire definitivamente le illusioni di esportazione armata della democrazia, ha riportato all’attualità il cosiddetto “Grande gioco“.

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La formula, resa celebre da Rudyard Kipling (e titolo di un illuminante libro di Peter Hopkirk), designa una lunga e complessa dinamica storica e geopolitica che in un primo tempo ha visto scontrarsi nel cuore del continente asiatico gli imperi russo e britannico, rispettivamente incarnazione (nelle parole del padre nobile della geopolitica americana Harold Makinder) del dominio tellurico e di quello talassocratico. Il “Grande gioco” è un fenomeno di lunga durata che richiede periodizzazioni e comparazioni fra le sue diverse fasi per poterne cogliere l’essenza e l’importanza.

Il Grande gioco nel XIX secolo

Man mano che l’impero zarista, nella sua formidabile “spinta verso l’est”, penetrava nelle profondità dell’Eurasia e sottometteva i Khanati del Turkestan, gli Inglesi, ormai stabilmente insediati nel subcontinente indiano, iniziarono a sentire sul collo il fiato dell’orso russo. Fu in tale contesto che maturò la prima guerra anglo-afgana (1839–1842). Essa si concluse con una catastrofica rotta per l’esercito di Sua Maestà. Nelle strette gole del passo Khyber oltre 12mila fra soldati britannici e aiutanti sul campo furono massacrati dalle tribù Pashtun in una terribile imboscata. Dopo quest’umiliante “Canne asiatica” gli Inglesi distolsero momentaneamente le loro mire dal fiero popolo delle montagne.

Tuttavia la sempre più impellente necessità di creare uno “Stato cuscinetto” fra l’impero russo (che nel 1868 si era spinto sino alle rive dell’Amu Darya) e i domini britannici del subcontinente indiano portò allo scoppio della seconda guerra anglo – afgana (1878 -1881). Il conflitto determinò la nascita di un regno a sovranità limitata. L’amministrazione del neonato Afganistan fu posta nelle mani del sovrano Abdur Ramhan Khan, la politica estera restava invece affare esclusivo della Regina Vittoria. Fu proprio un emissario di Sua Maestà, il ministro degli esteri del Raj britannico Sir Mortimer Durand, a tracciare nel 1893 l’omonima linea che ancora oggi separa l’Afganistan dal Pakistan e divide artificialmente il Pashtunistan.

Tale limes fittizio non fu mai riconosciuto dalle tribù nomadi locali e per i gruppi terroristici rivali Isis-K. e Al qaeda rappresenta ancora oggi il primo ostacolo da abbattere sulla via della realizzazione del progetto neocaliffale di superamento degli Stati. Un’ideologia “no border” in salsa islamista, quella neocaliffale, posta in essere dall’Isis anche fra Siria e Iraq e nelle lande desolate e sconfinate del Sahara e del Sahel.

Il Grande gioco nel XX secolo

L’Afganistan ottenne la piena indipendenza nel 1919. Ebbe così inizio un sessantennio di pace e di timida modernizzazione socio-economica. Prima regno e poi repubblica, nel secondo dopoguerra la nazione, pur appartenendo ufficialmente al “club dei non allineati”, fu attratta nell’orbita dell’Urss.

L’inizio dell’immane tragedia del popolo afgano ha una data precisa: il 27 aprile 1978. Fu in quel lontano giorno di primavera che il partito filosovietico Pakram (in lotta col “fratello – coltello” Khalq, anch’esso d’ispirazione marxista) prese il potere con un colpo di stato e diede il via a una cruenta repressione. A esserne colpiti furono gli oppositori politici e quei settori tradizionalisti non disposti a subire l’applicazione giacobina delle “riforme” di stampo socialista. Di fronte all’estendersi della rivolta e all’incapacità del regime di Kabul di riportare all’ordine aree sempre più vaste del Paese, l’Unione Sovietica di Brežnev (allora al culmine della sua espansione planetaria) decise di intervenire con una massiccia operazione militare.

Fu così che dopo un secolo, in una sorta di eterno ritorno, fece la sua ricomparsa il “Grande gioco” per il controllo del “cuore del mondo”. La “preda” era la medesima, ma gli attori diversi. Come potenza “tellurica” l’Urss aveva sostituito la vecchia Russia zarista. All’impero talassocratico degli Inglesi era invece subentrato quello degli Usa. Vogliosi di vendicare l’umiliazione vietnamita e allarmati dall’espansione comunista verso i caldi mari del sud, Carter e Reagan non esitarono ad armare la resistenza d’ispirazione islamista. Ai leader del “mondo libero” si unirono anche importanti potenze regionali: l’Arabia Saudita intenzionata a esportare il suo rigido e letteralista Islam wahabita, il Pakistan desideroso di recuperare una profondità strategica a occidente dopo la perdita del Bangladesh nella guerra – genocidio del 1971, l’Iran in preda ai furori khomeinisti e la Cina da tempo in aperta tenzone con Mosca.

Così nascono i Talebani

Nonostante un uso sproporzionato della forza e la devastazione dell’Afganistan (si calcola che da un minimo di seicentomila a un massimo di due milioni di afgani perirono per mano delle truppe sovietiche e dei loro collaborazionisti), l’Urss dovette ritirarsi umiliata dalle bandiere verdi dell’Islam. Quando – nel 1992 – anche il regime fantoccio di Najibullah collassò, i valorosi Mujaheddin sprecarono la vittoria in una cruenta e devastante guerra fratricida. Fu proprio dal caos postcomunista che emerse l’allora semisconosciuta milizia dei Talebani.

L’inarrestabile avanzata degli studenti coranici di etnia pasthun fu sostenuta dagli Emiri del Golfo, da Islamabad (tramite l’Isi, suo potentissimo servizio segreto) e (seppure non ufficialmente) dall’amministrazione Clinton. Rientrava, infatti, nei loro piani “pacificare” l’Afganistan sotto il tallone talebano e consentirvi il passaggio di un oleodotto che, partendo dal Turkmenistan, sarebbe dovuto sboccare sulle coste del Balucistan pakistano. Artefici dell’infrastruttura erano tre corporation petrolifere: la saudita Ngarco, l’argentina Bridas e la californiana Unocal. Tuttavia l’isolamento internazionale dei Talebani e la resistenza armata dei Mujaheddin dell’“alleanza del nord” (sostenuti da Russia, Iran e India) fecero naufragare il progetto.

Oggi: un vuoto di potere

Apertosi con il più mediatico e sanguinoso attentato di tutti i tempi (cui ha fatto seguito la più lunga e inutile delle guerre combattute dagli Usa), anche il ventunesimo secolo deve fare i conti con una nuova puntata del“Grande gioco”. Lo sgangherato ritiro degli occidentali dall’Afganistan (occasione nella quale, ancora una volta, l’Unione Europea ha brillato per la sua assenza) ha, infatti, aperto un vuoto di potere che presto dovrà essere colmato. Ma da chi? In primo luogo dalla nuova potenza tellurica (ma con ampie proiezioni marittime) della Cina. E’interesse della dirigenza comunista del dragone integrare l’Afganistan nei corridoi della nuova Via della Seta. E non si deve dimenticare un altro fattore fondamentale: la nazione centroasiatica racchiude enormi giacimenti di terre rare e di minerali (su tutti il litio) essenziali per la green economy.

Memore della lezione della storia, l’ex impero di mezzo non occuperà militarmente il vicino, ma si limiterà verosimilmente a una colonizzazione economica e allo scambio infrastrutture – risorse (secondo un protocollo ampiamente collaudato in Africa e non solo). Si tratterebbe comunque di un matrimonio d’interesse non privo d’incognite per la stessa Cina. Non è, infatti, del tutto chiaro se e in quale misura i Talebani saranno intenzionati a recidere i legami coi separatisti yuguri, nemico numero uno di Pechino e avanguardia orientale di quei popoli turcofoni sensibili alle sirene neoturaniche e panislamiste di Erdogan.

Un nuovo baricentro: il Pacifico

In questo quadro di ricomposizione regionale un dato sembra prevalere su tutti: la sconfitta dei talassocratici occidentali nell’ultima edizione del “Grande gioco”. Tuttavia non è detto che la conquista dell’egemonia planetaria del ventunesimo secolo passi (soltanto) per il dominio sull’Asia centrale. Il baricentro della “Seconda guerra fredda” fra i due pesi massimi del mondo è ormai l’Oceano Pacifico.

Priorità strategica degli Usa non è più dunque il controllo del “Grande Medio Oriente” e del “Mediterraneo allargato” (aree non più strategiche neanche per l’approvvigionamento energetico), bensì il contenimento del dragone attraverso un cordone di alleanze insulari e peninsulari che dal Giappone arriva sino alla penisola indiana e “ripiega” verso l’Australia. E’ il cosiddetto “progetto dell’Indo – Pacifico” inaugurato da Trump e portato avanti, anche con maggiore determinazione, da Biden. Gli accordi Quad e Aukus ne sono il sigillo diplomatico. In un’ottica strettamente geopolitica non è azzardato affermare che il Mackinder che vedeva nell’Heartland la chiave per il dominio planetario stia tornando a cedere il passo allo Skipman teorico del controllo del Rimland (arco peninsulare) euroasiatico.

Sarà il tempo a dire se la politica statunitense avrà la lungimiranza di fare proprio, accanto alla teoria di Skipman, quel monito di Mackinder che esortava l’occidente a impedire l’alleanza fra le grandi potenze della “Isola del mondo” (ieri Germania e Russia, oggi Cina e Russia). Un divide et impera perseguito negli anni settanta da Nixon e Kissinger e, in tempi assai più recenti, dal tanto bistrattato Donald Trump.

Davide Biosa

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