Torino, 10 gen – “Siamo in guerra”, dopo la strage di Parigi, è questo il mantra che va ripetendosi da sinistra a destra.
La stessa cantilena che siamo, ormai abituati a sentire da quel maledetto settembre del 2001.
Il “terrorismo internazionale” di matrice islamica è il nemico numero uno dell’occidente.
Che si stia combattendo una guerra a livello planetario che sta causando migliaia di morti è fuor di dubbio, ma la contrapposizione tra una parte del mondo islamico e l’occidente rappresenta solo un fronte secondario; le battaglie principali di questo conflitto, che purtroppo ci vede coinvolti, si stanno combattendo nel cuore del mondo arabo-musulmano.
“La primavera araba” e la guerra civile in Siria hanno reso evidenti le fratture interne al mondo islamico. Alla tradizionale divisione della umma in sunniti e sciiti, si affianca la la spaccatura del mondo sunnita, lacerato da conflitti tra centri politici e religiosi divisi su tutto.
Da ovest ad est, l’intero mondo arabo è in fermento.
Nell’area maghrebina, ad esempio i Fratelli Musulmani, la principale organizzazione radicale sunnita del mondo arabo, si contendono il potere con le giunte militari nazionaliste e laiche in Egitto, vincono e governano in Tunisia nel dopo Ben Alì, e combattono contro Isis e salafiti nella Libia del post Gheddafi.
In Libia, poi, la questione è resa ancor più complessa dagli scontri tribali presenti in tutto il paese, con i clan – i quali fondamentalmente nulla hanno a che fare con salafiti o Fratelli Musulmani – che cercano di assicurarsi il controllo delle fonti energetiche di cui la regione è ricca.
In Siria la situazione è ancor più paradigmatica di questa lotta di “tutti contro tutti” che si sta consumando nel mondo islamico.
Da una parte troviamo il presidente Assad, ultimo leader baathista, acerrimo nemico del fondamentalismo islamico, fautore di una politica laica di tolleranza religiosa e propugnatore di quel famoso nazionalismo panarabo inaugurato a Bagdad dopo la seconda guerra mondiale e, in parte, realizzato dal presidente egiziano Nasser.
Contro Assad, sulla scia delle rivolte in Tunisia e Libia si è coagulata una coalizione di oppositori politici supportati dall’occidente a cui si sono affiancati, ben presto, mercenari provenienti dalle monarchie assolute del Golfo, principali finanziatori della ribellione ad Assad.
Così in Siria, gruppi di fondamentalisti islamici hanno potuto proliferare indisturbati, costituendo veri e propri eserciti armati di tutto punto. Salafiti, whaabiti, Isis, Al Quaeda, ognuno per conto proprio, ma tutti contro Assad, colpevole di essere laico, socialista e nazionalista ed ovviamente sciita. L’appartenenza etnico-religiosa di Assad agli alawiti, gruppo siriano sciita, costituisce uno dei pretesti, per i fondamentalisti sunniti, per continuare, senza sosta, una sanguinosa guerra nel cuore del mediterraneo. Poco importa che il Gran Muftì di Damasco, massima autorità religiosa del paese, si sia schierato apertamente a favore di Assad nel nome della pace e della reciproca tolleranza: la guerra contro il nazionalismo laico deve proseguire e gli sciiti devono essere isolati politicamente.
Assad, nella sua disperata resistenza contro il fondamentalismo islamico non è fortunatamente solo. La Russia fornisce armamenti e risorse a Damasco e la potente milizia sciita libanese Hezbollah, fornisce supporto militare e logistico colpendo da ovest le milizie salafite.
Nel già caotio quadro siriano non può essere dimenticato l’esercito curdo che, armato dall’Europa, prova a resistere all’avanzata dell’Isis, ma che allo stesso tempo si è schierato, per puro opportunismo, contro Assad, sperando nell’agognata indipendenza.
Dopo la deposizione di Saddm Hussein, l’Iraq è sprofondato nel caos. La maggioranza sciita ha provato ad assicurarsi il controllo del paese, ricevendo aiuti da parte dell’Iran. Tuttavia, lo scoppiare dell’odio inter-religioso, il vuoto politico ed il malcontento dilagante hanno fornito terreno fertile ai gruppi sunniti fondamentalisti per mietere consensi e strutturarsi sul territorio. Da una costola di Al Quaeda è nato l’Isis, il nuovo califfato di Al Bagdadi, il sanguinario fondamentalista che controlla con le proprie milizie una vasta porzione dell’Iraq e una parte della Siria.
Al Bagdadi, coccolato, finanziato, armato e cresciuto dalle monarchie del Golfo ha prima abbandonato un’ormai agonizzante Al Quaeda e poi, costituito un proprio califfato, ha voltato le spalle ai suoi alleati, svincolandosi da controllo qatariota, convinto, forse, di poter realmente unificare il mondo sunnita a colpi di ak 47. Si calcola che Al Bagdadi incassi 1 milione di dollari al giorno dalla vendita, sul mercato nero, del petrolio sotto il suo controllo, ha dunque la forza economica necessaria per continuare da solo e non dover dividere la torta con nessuno.
Come si diceva più sopra, il mondo sunnita è fortemente spaccato al suo interno. Le grandi scuole coraniche e le massime autorità religiose hanno pubblicamente messo all’indice l’Isis. Persino il Gran Muftì saudita ha dichiarato l’agosto scorso che “L’Isis e i Fratelli Mussulmani non sono parte dell’Islam”. Dunque, le scuole whaabite saudite, nemiche giurate degli sciiti e del nazionalismo arabo non fanno fronte comune né con la Fratellanza, né con Al Bagdadi, eppure si ritrovano assieme a combattere in Siria contro Assad, per poi posizionarsi su distinte barricate in Iraq, Yemen, Egitto etc.
Fino ad oggi è parso anche piuttosto ambiguo l’atteggiamento degli Emirati Arabi Uniti e del Qatar.
Si tratta degli alleati regionali più fedeli degli Stati Uniti e dell’Europa. E’ noto che in Libia il Qatar abbia giocato un ruolo decisivo nel rovesciare Gheddafi, così come in Siria l’opposizione, anche l’ala salafita più radicale, è stata finanziata, addestrata e formata da Doha.
Inizialmente il Qatar ha fornito armi e appoggi all’Isis, oggi, dopo che Al Bagdadi ha smesso di prendere ordini dal Golfo, la piccola (ma ricchissima) monarchia assoluta ha iniziato ad avversare l’ex alleato, anche sostenendo altri gruppi radicali (salafiti per lo più), competitori diretti del Califfato nell’accaparrarsi i militanti più fanatici.
Tutta questa frammentazione non è un qualcosa di estraneo all’Islam e all’insegnamento del profeta: era stato Maometto stesso a predire che la umma, dopo la sua morte, si sarebbe suddivisa in decine di tribù distinte e, così, è puntualmente andata.
Oggi, quindi, salafiti, Isis, whaabiti, talebani, Fratelli Mussulmani, Al Qaeda, tutti gruppi ascrivibili a quello che in occidente chiamiamo “fondamentalismo islamico”, sono tutti in guerra contro sciiti e nazionalisti, ma sono anche in guerra tra loro. Una guerra spietata e multiforme, fatta di disquisizioni dottrinarie, ma anche bombe nei mercati, stragi nelle moschee, rapimenti, riduzione in schiavitù di interi popoli.
Cosa c’entra tutto questo con l’attentato al Charlie Hebdo?
Un’attentato della portata di quello fatto al settimanale francese, fatto nel cuore dell’Europa, è destinato a produrre conseguenze su piani distinti.
Oltre alle conseguenze tipiche delle strategie stragiste (destabilizzazione, paura, reazione etc) che hanno ad oggetto la “vittima” dell’attentato (quindi la Francia e l’occidente intero), i morti dello Charlie possono anche mutare i rapporti di forza tra i gruppi fondamentalisti.
E’ necessario premettere, tuttavia, che ad oggi non è ancora noto il gruppo radicale responsabile dell’attacco a Parigi. I media hanno fatto, sin dalle prime ore, una grandissima confusione parlando di una bandiera dell’Isis rinvenuta agli attentatori e di una militanza degli stessi in gruppi armati salafiti operativi in Siria, che, come si evidenziava sopra, non sono in alcun modo collegati o collegabili con l’Isis. Gli attentatori, per quanto oggi ne sappiamo, potrebbero essere dei fanatici isolati, che hanno agito in proprio senza prendere ordini da nessuno, d’altronde nessun gruppo fondamentalista ha al momento rivendicato gli attentati.
Se l’attentato, come sembra più credibile, è stato ordito e programmato da un qualche gruppo armato, questo fatto è destinato ad avere ripercussioni nella guerra tutta interna all’Islam.
Gli sciiti, tutti anche Hezbollah, hanno subito condannato il vile attacco allo Charlie (peraltro con meno distinguo del Financial Times).
Tutte le principali organizzazioni sunnite in Europa e i Gran Muftì delle nazione arabe hanno, anch’esse, preso le distanze dall’azione dei Kouachi.
Isis e salafiti hanno plaudito le gesta dei loro “fratelli”, facendo, coerentemente, una scelta di campo che li pone, una volta di più, ben ai margini della umma.
Quali conseguenze pioveranno in testa ai mussulmani di tutto il mondo dopo l’attentato? E’ ancora presto per dirlo, ma certamente non qualcosa di buono: esattamente quello che i gruppi radicali vogliono.
Isis e simili aspettano e confidano nel piovere a grappoli di ulteriori bombe occidentali, che avranno quale unico effetto quello di spingere i civili bombardati nelle braccia dei loro difensori fondamentalisti.
La bomba allo Charlie non è, solo, un pugno allo stomaco dell’Europa, ma è una vera e propria catastrofe per tutto il mondo arabo, come una catastrofe per il mondo arabo fu l’11 settembre del 2001.
Federico Depetris