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Quando “antifascismo” vuol dire intimidazione: l’assalto a La Stampa e la guerra delle parole

by Francesco Clun
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La Stampa

Roma, 2 dic – Venerdì 28 novembre, nel giorno dello sciopero generale e dello sciopero dei giornalisti, un corteo di antagonisti – riconducibili all’area del centro sociale Askatasuna e di altri collettivi torinesi – ha deviato il proprio percorso verso la sede de La Stampa, in via Lugaro. Coperti dai fumogeni, alcuni manifestanti hanno forzato gli ingressi, passando anche dal bar del giornale, divellendo una porta, strappando telecamere di sorveglianza e penetrando nei locali quasi vuoti a causa dello sciopero. Mentre si muovevano tra corridoi e redazione, sui muri comparivano scritte ostili, e soprattutto risuonavano slogan inequivocabili: «Ti uccido, giornalista», «Giornalista, ti ammazziamo». A oggi risultano identificate e denunciate 30-36 persone, tutte ricondotte all’area antagonista cittadina. La condanna istituzionale è stata immediata: il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha espresso solidarietà alla redazione, parlando di «ferma condanna» per la violenta irruzione nella sede del quotidiano.

L’assalto a La Stampa

Non serve essere lettori de La Stampa per capire che qui non è in gioco un semplice problema di ordine pubblico, ma una violazione frontale della stessa Costituzione che questi gruppi sbandierano a ogni corteo. L’articolo 21 tutela la libertà di manifestare il proprio pensiero e, in modo particolarmente solenne, la libertà di stampa, che «non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure»: nel momento in cui un gruppo organizzato irrompe in una redazione, minaccia i giornalisti e devasta i luoghi in cui il giornale prende forma, quella garanzia viene calpestata nella sua sostanza, non solo nei suoi principi. Allo stesso modo, l’articolo 17 riconosce il diritto di riunirsi solo se l’assemblea è «pacifica e senz’armi»: fumogeni, devastazioni e minacce di morte non rientrano in nessuna manifestazione pacifica, ma rappresentano la negazione giuridica e politica di quel diritto. E ancora, l’articolo 18 tutela la libertà di associazione, ma esclude espressamente le formazioni di carattere “militare” e, più in generale, ogni forma di violenza organizzata che si sostituisca alle istituzioni. Quando gruppi informali si arrogano il potere di “punire” fisicamente chi scrive, ci si avvicina alla logica di un potere parallelo che decide chi può parlare e a quali condizioni. Il paradosso, e insieme lo scandalo politico, è tutto qui: coloro che si presentano come custodi intransigenti della Carta sono spesso i primi a violarne articoli fondamentali, trasformando la Costituzione da patto comune in bandiera da esibire di giorno e da ignorare, sistematicamente, ogni volta che intralcia la loro azione.

La prassi mafiosa

I protagonisti di questa vicenda non sono fantasmi indistinti: parliamo di militanti dell’area antagonista torinese, legati storicamente al centro sociale Askatasuna e a collettivi studenteschi e di movimento. Nel corso degli anni, queste realtà hanno alternato iniziative sociali e culturali a momenti di scontro duro con le istituzioni: cortei degenerati in devastazioni, azioni contro la TAV, assalti a sedi politiche e sindacali fino a vere e proprie spedizioni punitive contro gruppi opposti. Se si osserva con un minimo di freddezza la dinamica dell’assalto a La Stampa, emerge uno schema che ricorda molto da vicino quello delle organizzazioni mafiose, non sul piano del business criminale ma su quello del metodo:

  1. Intimidazione esemplare: l’irruzione non è un incidente di percorso, ma un’azione dimostrativa pensata per produrre un effetto di deterrenza generale. Si colpisce il luogo in cui il giornale vive, cioè la redazione, e lo si espone a una violenza simbolica e materiale: ingressi forzati, locali devastati, minacce ai giornalisti. Come negli avvertimenti mafiosi, il bersaglio immediato è meno importante del messaggio che l’episodio invia all’intera categoria: chi esercita il diritto di informare può diventare oggetto di una punizione fisica e pubblica. La scelta del luogo e del momento (il giorno dello sciopero dei giornalisti) rafforza la dimensione esemplare del gesto, che si propone di ridefinire i confini di ciò che è lecito scrivere e pubblicare.
  2. Violenza come linguaggio politico ordinario: nella galassia antagonista torinese la violenza non appare come una deviazione episodica, ma come un codice espressivo ricorrente. Cortei che degenerano sistematicamente in danneggiamenti, assalti a sedi politiche o istituzionali, uso di fumogeni e ordigni artigianali come firma riconoscibile costituiscono una sorta di pedagogia della paura rivolta tanto agli avversari quanto agli alleati riottosi. È lo stesso meccanismo che si osserva nelle organizzazioni mafiose: la forza viene esibita regolarmente, a intensità variabile, per marcare il territorio, disciplinare il gruppo dall’interno e regolare i rapporti con l’esterno. Non è l’eccezione allo scontro politico, ma una grammatica alternativa attraverso cui si pretende di riscrivere i rapporti di potere.
  3. Omertà e minimizzazione: dopo ogni episodio violento si ripete una sceneggiatura ormai collaudata: si attenua la portata dei fatti, li si attribuisce a “eccessi” di singoli, si sposta l’attenzione sulle presunte provocazioni subite, si denuncia la criminalizzazione del dissenso. All’interno dei collettivi chi parla apertamente, chi dissente o mette in discussione la pratica dello scontro fisico viene percepito come traditore, esattamente come accade nei contesti mafiosi, dove il vincolo di appartenenza impone il silenzio o, al massimo, una condanna di facciata. La minimizzazione pubblica e la solidarietà automatica verso chi ha partecipato agli scontri contribuiscono a costruire una zona grigia nella quale nessuno è davvero responsabile e la violenza diventa un fatto quasi fisiologico, inevitabile, quindi in qualche modo accettato.
  4. Controllo del territorio simbolico: se le mafie tradizionali presidiano il territorio fisico, questi gruppi mirano a presidiare il territorio simbolico e comunicativo: redazioni, università, sedi sindacali e politiche diventano luoghi in cui l’accesso, la parola, la semplice agibilità dipendono dalla capacità di reggere o di evitare la pressione dei collettivi più radicali. L’assalto a La Stampa opera precisamente in questa direzione: mostra che una redazione può essere visitata con la forza, che chi scrive può essere messo nel mirino, che lo svolgimento normale dell’attività giornalistica è subordinato alla tolleranza di gruppi che si attribuiscono un potere di veto di fatto. È una forma di controllo non codificata ma efficace, che riproduce in chiave politica lo stesso risultato prodotto dal dominio mafioso sui quartieri: non serve intervenire ogni giorno, basta che la possibilità dell’intervento resti costantemente sullo sfondo.

Non si sta sostenendo che Askatasuna o i collettivi siano mafie in senso tecnico-giuridico anche se alcuni schemi tipici di entrambi i gruppi hanno delle inquietanti sovrapposizioni. Ma la dinamica intimidazione – violenza – silenzio – controllo riproduce con grave fedeltà il codice mafioso applicato alla sfera politica. Un antifascismo che si è trasformato (o forse lo è sempre stato n.d.r.) in anticamera della sopraffazione. È questa l’anomalia più profonda: usare la parola “antifascismo” come scudo morale per pratiche che violente, intimidatorie ed omertose.

La guerra delle parole

L’ultimo, decisivo livello della vicenda riguarda il linguaggio. Nelle ore successive all’assalto, diversi commenti in area progressista e antifascista hanno definito l’episodio un grave atto squadrista, una violenza fascista contro la libertà di stampa. Si tratta di una scelta lessicale che merita di essere presa sul serio, perché non è affatto neutrale. A un primo sguardo, sembra quasi una condanna particolarmente dura: si evoca il Ventennio, si richiama lo squadrismo storico, si richiama l’immaginario delle camicie nere che assaltano le redazioni avversarie. Ma se si guarda meglio, accade qualcosa di diverso: la realtà viene rovesciata. Chi compie l’assalto fa parte, per identità dichiarata, del mondo “antifascista”; chi li condanna, per salvare l’aura morale del proprio campo, arriva a dire che ciò che fanno è fascista, come se il fascismo fosse una categoria morale astratta, sganciata da soggetti e contesti, che può essere appiccicata a chiunque in qualunque momento. Il risultato è duplice: da un lato, si assolve simbolicamente il noi di cui fanno parte e, in particolar modo, il mondo dei centri sociali e dei movimenti antagonisti che per definizione non può essere fascista; dall’altro, si trasforma il fascismo in un semplice sinonimo di male politico, svuotandolo della sua storicità concreta e rendendo impossibile riconoscere derive autoritarie quando partono da sinistra.

La torsione del linguaggio

Questa torsione del linguaggio non è casuale. Dentro la tradizione neo-marxista e della Scuola di Francoforte, il tema della costruzione simbolica della realtà, del ruolo dei media e dell’ideologia è centrale: la società non è data una volta per tutte, ma è sempre mediata da narrazioni, immagini, parole. Autori come Horkheimer e Adorno hanno mostrato come l’industria culturale possa plasmare consenso e percezioni; Marcuse ha parlato di tolleranza repressiva, cioè della capacità di un sistema di integrare e neutralizzare l’opposizione anche attraverso il linguaggio e le categorie morali. Quell’apparato teorico nasceva per smascherare le mistificazioni del potere, non per crearne di nuove. Ma una certa sinistra intellettuale ha interiorizzato solo un pezzo di quel discorso: l’idea che, controllando le parole, si possa controllare la realtà. Così, se il termine fascismo viene esteso indefinitamente, esso diventa l’arma linguistica con cui definire chi sta dalla parte del torto, a prescindere dai fatti. Nel caso dell’assalto a La Stampa, lo schema è evidente: alcuni gruppi che si definiscono antifascisti assaltano una redazione, intimidiscono i giornalisti, devastano i locali; si dice che l’episodio è frutto di violenza fascista e di un atto squadrista; la categoria fascismo viene usata per salvare la “purezza morale” del campo antifascista, spostando il peso simbolico dal soggetto che agisce al tipo di azione compiuta. L’azione è fascista, dunque chi l’ha compiuta è, per definizione, estraneo al vero antifascismo.

Una malafede stutturale

È difficile non cogliere in tutto questo una malafede strutturale. Non si tratta di un semplice errore storico: è una strategia discorsiva che rientra perfettamente nella logica di certa teoria critica degenerata in prassi propagandistica. Se la realtà contraddice la narrazione, non si corregge la narrazione: si cambiano le parole, si ridefiniscono i significati, si sposta l’asse semantico finché i fatti tornano ad allinearsi con il racconto desiderato. Il paradosso finale è che, in nome dell’antifascismo, si finisce per praticare una forma di relativismo autoritario: non esistono più responsabilità politiche interne al proprio campo, solo colpe che, per definizione, appartengono agli altri. In questo modo, i principi costituzionali non sono più bussola comune, ma strumenti retorici da usare a corrente alternata. L’assalto a La Stampa è stato un atto grave contro la libertà di informazione e contro la Costituzione: non un incidente, non una deviazione, ma l’esito coerente di un metodo. Intanto, in Europa e nel mondo, si moltiplicano i casi in cui questi circuiti militanti vengono progressivamente assimilati a vere e proprie organizzazioni criminali, non solo nel dibattito pubblico ma anche sul piano giuridico, là dove l’intimidazione sistematica diventa strumento di azione politica. Forse è giunto il momento che anche l’Italia si ponga seriamente la stessa domanda: fino a quando sarà possibile continuare a chiamarli semplicemente movimenti, e non per ciò che i loro comportamenti, giorno dopo giorno, descrivono con ostinazione?

Francesco Clun

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