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Wish You Were Here compie cinquant’anni: riscoprire un’opera rock oltre il successo

by Sergio Filacchioni
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Wish you were here

Roma, 28 dic – A cinquant’anni dalla sua uscita, Wish You Were Here resta uno degli album più ascoltati e consumati della storia del rock. Non è un caso che proprio questo dicembre sia stata pubblicata una ricca edizione speciale in diversi formati, riportando i Pink Floyd al centro dell’attenzione globale: un nuovo boom di ascolti che ha spinto un disco del 1975 di nuovo ai vertici delle classifiche mondiali nel 2025. Eppure, nonostante brani inconfondibili e un sound ormai canonizzato, qualcosa continua a sfuggire. Qualcosa che resiste alla voracità dell’industria musicale e che parla di molto più della semplice musica.

50 anni di Wish You Were Here

La title track è forse il brano più frainteso dell’intero album. Isolata dal contesto e consumata come singolo, viene spesso ridotta a una canzone nostalgica sull’assenza affettiva, perfettamente adattabile a un immaginario emotivo contemporaneo. In realtà, Wish You Were Here è un organismo unitario, un concept rigoroso che affronta un tema preciso: la perdita della presenza reale in una modernità sempre più mediata, funzionale, impersonale. Non serve caricare il disco di significati estranei; basta ascoltarne la struttura, il suono, la progressione interna. I Pink Floyd non raccontano la ribellione di una generazione, ma una condizione esistenziale: l’esserci-nel-mondo, nel senso più propriamente heideggeriano. Un esserci che non viene negato o annientato, ma progressivamente svuotato. L’uomo continua a essere nel mondo, ma non abita più il mondo. È presente in modo opaco, filtrato, funzionale: inserito in un sistema di relazioni che lo rende operativo ma non autentico, visibile ma non realmente coinvolto. I Pink Floyd ci racconto l’esserci che scivola nel deserto dell’inautenticità, dove l’esperienza non è più vissuta come apertura al mondo, bensì come adattamento a un ambiente già dato e amministrato. È per questo che il cuore dell’album non è il rimpianto, ma la misura della lontananza. Lontananza da sé, dal tempo vissuto come esperienza, dal mondo come spazio di presenza reale. La domanda implicita non è “chi ci manca?”, ma “siamo davvero qui?”. Ed è in questa frattura silenziosa, più che in qualsiasi malinconia, che Wish You Were Here trova la sua forza e la sua inquietudine duratura.

La terra desolata

Il punto di partenza è noto: l’assenza di Syd Barrett. Ma fermarsi al dato biografico significa fraintendere il senso dell’intera opera. Barrett non viene celebrato come l’icona romantica e dannata del rock che oggi l’immaginario collettivo ha cristallizzato. È piuttosto la figura esemplare di ciò che un sistema sociale e culturale, a un certo punto del suo sviluppo, non riesce più a comprendere: colui che sfugge alla funzione, all’efficienza, alla compatibilità. In questo senso Wish You Were Here parla la stessa lingua di The Waste Land. Quando Eliot scrive «In una manciata di polvere vi mostrerò la paura», non costruisce una semplice suggestione poetica, ma descrive una civiltà che ha perso consistenza, temporalità, centro. Una civiltà fatta di frammenti e “immagini spezzate”, in cui la vita continua a scorrere senza più un principio ordinatore. I Pink Floyd, consapevolmente o meno, traducono questa diagnosi in suono. Ci fanno ascoltare la mancanza. E anche vedere: i frame finali del nuovo video che ha accompagnato l’uscita del brano simbolo dell’album, sono sufficientemente eloquenti. Una figura umana che si sgretola come sabbia in un paesaggio desolato.

Pink Floyd – Wish You Were Here (Official Video)

Crazy Diamond e civiltà

Shine On You Crazy Diamond apre l’album senza urgenza e senza attacco. I sintetizzatori e la chitarra non introducono un tema, ma costruiscono uno spazio. La musica procede per sospensioni, attese, ingressi lenti. È una scelta formale precisa, perché l’oggetto del brano è la distanza. Quando il testo dice «remember when you were young», non invita a una nostalgia sentimentale, ma apre una frattura spazio-temporale più ampia, come se la domanda non fosse rivolta solo all’ascoltatore, ma a un’intera civiltà. Non ci sta ricordando “com’era bello”, ma sta misurando la distanza tra l’essere nella sua pienezza e il suo possibile annientamento. In questo senso, nelle liriche di Waters, Barrett assume una dimensione quasi divina: non è solo l’amico perduto, ma la possibilità concreta che una civiltà smarrisca i suoi uomini migliori, quei “crazy diamond” – le “antenne della razza” di cui parlava Ezra Pound – perché non sa più che farsene di ciò che è giovane, irruento, ispirato e inquieto. In altre parole, perché ha smesso di riconoscere il lato dionisiaco e fenomenico dell’esistenza.

Welcome, my son

Il centro concettuale dell’album è però Welcome to the Machine. Qui la critica alla modernità non passa tanto dal testo quanto dall’intero impianto sonoro. I sintetizzatori, i rumori meccanici, l’assenza quasi totale di calore ritmico costruiscono un ambiente chiuso e artificiale. La voce è filtrata, distante, amministrativa. La “macchina”, suggeriscono i Pink Floyd con lucidità spiazzante, non opprime: accoglie, uniformizza, consola. Dice «welcome, my son», promette orientamento, successo, sicurezza. È una rappresentazione che va oltre la lente orwelliana, perché ci dice qualcosa che raramente siamo disposti ad ammettere: un sistema non sopravvive grazie alla coercizione, ma grazie a un soft power che anestetizza i sensi e la volontà, indirizzando i desideri verso il consumo e le aspirazioni verso utopie astratte e irraggiungibili. Qui si incrocia pienamente la categoria poundiana dell’usura, intesa non come semplice fenomeno economico, ma come principio che corrompe il tempo e la forma. Quando Pound scrive che con l’usura nessuna opera è fatta per durare, descrive una civiltà orientata esclusivamente al rendimento immediato. La macchina di Welcome to the Machine funziona esattamente così: non distrugge l’uomo, lo rende compatibile; non elimina il desiderio, lo riorganizza.

Which one’s Pink?

Have a Cigar sposta il discorso sul piano sociale. Il successo viene celebrato in modo automatico e impersonale, e in questo brano più che in ogni altro si intravede il passaggio dei Pink Floyd da gruppo di nicchia a superpotenza globale. Nel 1975 la band deve “sopravvivere” al successo di The Dark Side of the Moon, confrontandosi con crescita, disillusione e ricerca di una nuova identità. Temi che attraversano un brano apparentemente dedicato agli impresari discografici, ma che finisce per parlare di spersonalizzazione. Non a caso la voce non è quella di un membro della band, ma di Roy Harper. La celebre domanda «which one’s Pink?» non è solo una battuta sull’ignoranza del music business, ma la fotografia di un’identità dissolta e ridotta a marchio. Anche musicalmente il brano è costruito per risultare efficiente, scorrevole, funzionale: una critica all’industria discografica condotta usando il suo stesso linguaggio.

Pink Floyd – Wish You Were Here (Official Video)

Esserci o non esserci

Solo a questo punto arriva Wish You Were Here. Una “canzone country molto semplice”, come la definì David Gilmour, ma tutt’altro che una canzone d’amore. La voce di Gilmour non è un lamentoso “mi ami?”, ma una riflessione che pone la questione ontologica dell’intero album: sei qui, davvero? È una domanda che percorre tutta la cultura europea della crisi, da Eliot a Pound, passando per Gentile: cosa resta del “noi” quando l’uomo viene ridotto a numero, il lavoro a funzione, il cittadino a gregario? L’introduzione radiofonica, con il passaggio da una frequenza all’altra, suggerisce un mondo mediato, saturo di segnali ma povero di presenza. Le contrapposizioni tra pensiero e atto, guerra e pace, utopia e realtà non sono sentimentali, ma percettive, quasi fisiche. «Do you think you can tell?». Siamo ancora in grado di capire qual è la nostra direzione nel mondo? Rileggere The Hollow Men o il Canto XLV di Pound e riascoltare Wish You Were Here significa soffermarsi a riflettere sulla stessa anomalia: l’uomo che ha smesso di vivere il tempo autentico della storia per rifugiarsi in un eterno presente. Il deserto, in fondo, non è il luogo in cui non cresce nulla, ma quello in cui tutto cresce senza radici, senza maturare, senza compiersi.

Wish You Were Here oltre il successo commerciale

Inserire Wish You Were Here nella continuità dell’insurrezione intellettuale contro la modernità non significa attribuirgli intenzioni che forse non ha mai avuto. Significa riconoscerne la postura e lo stile: quelli di un’opera profondamente europea, che rinuncia alle consolazioni facili per tradurre in musica la conflittualità della propria epoca. La domanda che lascia sospesa è decisiva: cosa accade all’uomo quando il nemico non è più un avversario visibile, ma un ambiente che ti circonda, ti forma, ti accudisce? L’album non offre soluzioni, perché l’arte non ha mai avuto il compito di fornirle. Come gli oracoli delfici, parla per enigmi. La chiusura di Shine On You Crazy Diamond non risolve nulla, mantiene la tensione aperta. Riascoltato oggi, Wish You Were Here non colpisce per la sua inattualità, ma per la precisione con cui descrive un paesaggio storico e antropologico che è ancora il nostro. Definirlo un disco “contro il sistema” sarebbe riduttivo: i Pink Floyd mostrano cosa accade quando il sistema diventa normalità, insinuandosi nei rapporti, nell’intimità, nei conflitti quotidiani che decidono se emergiamo o affondiamo. È qui la sua forza. E la domanda resta. Inquietante. Necessaria.

Sergio Filacchioni

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