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Hannoun e il cortocircuito pro Pal: il fallimento politico della sinistra

by Sergio Filacchioni
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Hannoun

Roma, 29 dic – L’inchiesta sui presunti finanziamenti ad Hamas attraverso associazioni attive in Italia non è solo un fatto giudiziario. È un terremoto politico che investe in pieno la sinistra italiana e il sistema di legittimazione costruito negli ultimi anni attorno alla galassia pro-Palestina. Non per le accuse in sé, che dovranno essere accertate, ma perché fanno crollare una narrazione coltivata a lungo senza filtri, senza domande, senza visione.

Hannoun e i finanziamenti ad Hamas

Secondo la Procura di Genova, una rete di associazioni formalmente impegnate nella solidarietà umanitaria avrebbe raccolto milioni di euro destinati in parte a Hamas o a strutture collegate. Al centro dell’indagine c’è Mohammed Hannoun, presidente dell’Associazione dei Palestinesi in Italia, arrestato nell’operazione “Domino”. Gli inquirenti lo indicano come nodo centrale nella gestione dei fondi, soprattutto dopo il 7 ottobre 2023. Accanto a lui emergono altri nomi: Mahmoud El Shobky, referente per la raccolta in Piemonte e in altre regioni; Dawoud Ra’Ed Hussny, noto come Abu Falastine; Yaser Elasaly, intercettato mentre parla di “amana”, il denaro raccolto e consegnato. Negli atti compare anche l’imam di Torino Mohamed Shahin, non indagato, ma citato come interlocutore di alcuni arrestati e coinvolto in movimenti di denaro. Una figura già nota alle cronache per il provvedimento di espulsione poi annullato e per il sostegno politico ricevuto da ambienti progressisti. Ma questa fin ora è la cronaca. Il punto politico è un altro. Hannoun non era un soggetto marginale. Era pienamente inserito nello spazio pubblico italiano. Invitato a convegni, ricevuto in Parlamento, presente su palchi politici. Ha partecipato a iniziative insieme a Laura Boldrini, Nicola Fratoianni, Marco Furfaro, esponenti del Partito Democratico, di AVS, del Movimento 5 Stelle. Ha condiviso eventi con Francesca Albanese, relatrice ONU per i Territori palestinesi. Non incontri riservati, ma appuntamenti pubblici, rivendicati, difesi fino a ieri.

Le reazioni della sinistra

Quando l’inchiesta esplode, le reazioni sono tutte uguali. Distanze immediate, minimizzazioni, formule difensive ripetute: “l’ho incontrato una volta”, “per pochi minuti”, “mai parlato di soldi”. Una linea comprensibile sul piano personale, ma politicamente devastante. Perché mostra l’assenza di una selezione degli interlocutori, di un’analisi del contesto, di una responsabilità politica. La sinistra italiana ha trattato la questione palestinese come un dispositivo morale, non come quel nodo complesso che invece rappresenta. Una causa assoluta che rendeva automaticamente legittimo chiunque se ne proclamasse portavoce. Una bandiera utile per occupare le piazze e coprire il vuoto di progetto. In questo schema, le domande diventavano sospette e le ambiguità venivano rimosse in nome dell’emergenza umanitaria. Così è stata accolta senza filtri una galassia composita e instabile. Associazionismo sincero, attivismo militante, radicalismo ideologico, terzomondismo woke, islamismo politico. Mondi diversi, obiettivi diversi, tenuti insieme da una narrazione semplificata. E quando si entra in uno spazio così carico di tensioni senza strumenti politici, il conto arriva. C’è poi un’ipocrisia che oggi emerge con forza e non possiamo fare a meno di sottolineare. Per anni settori della sinistra hanno costruito campagne ossessive contro la “galassia nera”, i presunti finanziamenti all’estrema destra, le reti identitarie. Libri, inchieste, scandali permanenti. L’ultima in ordine di tempo soltanto cinque giorni fa: un’interrogazione parlamentare firmata dalla segretaria del Pd Elly Schlein e i leader di Avs Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni per fare luce sugli «Unici», una presunta rete di finanziatori occulti di CasaPound portata all’attenzione pubblica da un libro di Paolo Berizzi. Tempismo perfetto. Perché ora che l’attenzione si sposta sull’area che quella stessa sinistra ha frequentato e protetto, il tono cambia: i grandi inquisitori si trasformano in agnellini, si invoca prudenza, si denuncia la strumentalizzazione, si separa semanticamente la solidarietà dalle strutture che la organizzavano.

La procura antimafia si indigna della sua stessa indagine

C’è poi un ulteriore elemento che merita attenzione e che dice molto del clima politico in cui questa inchiesta si muove. A coordinare l’azione giudiziaria contro Hannoun è il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo, magistrato di lunga carriera e figura centrale dell’operazione. Fin qui, nulla da eccepire. Ma colpisce il contenuto della nota ufficiale diffusa dalla Procura, in cui si sente il bisogno di precisare che l’indagine sui finanziamenti ad Hamas non può in alcun modo “cancellare” o “assolvere” i crimini commessi da Israele ai danni della popolazione palestinese. Una puntualizzazione “strana”, che esula dal perimetro strettamente giudiziario dell’inchiesta e che introduce un elemento politico e simbolico nel momento stesso in cui si colpisce una rete accusata di finanziare un’organizzazione terroristica. Melillo – è cosa nota – è espressione dell’area progressista della magistratura. Ma è legittimo chiedersi quale partita si stia giocando quando l’autorità che guida la repressione del finanziamento al terrorismo avverte contemporaneamente l’esigenza di riequilibrare il messaggio politico, quasi a voler rassicurare un certo campo ideologico. Un’opacità che contribuisce al cortocircuito generale: un’inchiesta che dovrebbe parlare con il linguaggio dei fatti e delle responsabilità penali viene immediatamente risucchiata dentro una narrazione più ampia, dove nessuno vuole apparire “dalla parte sbagliata” e il moralismo diluisce le responsabilità. E il risultato è un’ulteriore confusione tra piano giudiziario e piano politico, esattamente quel terreno scivoloso su cui la sinistra ha costruito le proprie ambiguità negli ultimi anni.

Un problema strutturale europeo

Questo quadro non è solo italiano. È europeo. Da tempo rapporti e analisi segnalano come l’Unione Europea abbia sottovalutato la penetrazione di reti legate all’islamismo politico, in particolare all’area dei Fratelli Musulmani, all’interno di ONG, associazioni culturali, organismi religiosi e progetti finanziati con fondi pubblici. Una presenza capace di muoversi in modo camaleontico, adottando il linguaggio dei diritti, dell’inclusione e dell’antidiscriminazione per ottenere risorse e legittimazione, e di bollare come “islamofobo” chiunque sollevi dubbi politici. In Francia il tema è ormai apertamente discusso a livello governativo. Al Parlamento europeo sono state presentate interrogazioni formali. Il problema quindi esiste, ed è strutturale. Il caso italiano si inserisce perfettamente in questa cornice. Non come prova di un complotto islamista, ma come effetto di una scelta politica precisa: rinunciare alla distinzione, sospendere il giudizio, accettare qualsiasi interlocutore purché “pro Pal”. È così che una parte della sinistra ha finito per abitare lo stesso spazio di soggetti che non hanno mai nascosto la legittimazione della lotta armata. Non è escluso, anzi è probabile, che alcuni protagonisti continueranno a rivendicare quella vicinanza. Figure come Francesca Albanese o Alessandro Di Battista incarnano una postura precisa e, per certi versi, coerente: trasformare l’indagine in persecuzione politica, l’accusa in prova di legittimità per un futuro soggetto politico. In questo schema difendere Hannoun significa difendere l’intero impianto narrativo che ha giustificato piazze, flotille, mobilitazioni e alleanze.

Hannoun è un punto di non ritorno

Ma è proprio qui che si consuma la frattura interna alla sinistra. Da un lato chi oggi prova a smarcarsi e prendere tempo. Dall’altro chi non arretra di un millimetro e considera ogni distanza come una resa allo Stato, all’Occidente, alla “criminalizzazione della resistenza”. Il caso Hannoun diventa così un punto di non ritorno. Rivendicare quella vicinanza significa accettare il circuito tra solidarietà umanitaria e contiguità politica con mondi che applicano la violenza come strumento di lotta politica. Questa vicenda – è bene chiarirlo alla luce della posizione che Il Primato Nazionale ha sempre espresso – non delegittima la causa palestinese in assoluto, e non “assolve” il governo israeliano. Ma mette sotto accusa una sinistra che ha rinunciato alla politica in favore dell’agitazione morale, che ha passato gli ultimi tre anni a stilare liste di “complici” e lanciare accuse sommarie contro tutto e tutti. Una sinistra che si è imbarcata in un conflitto complesso senza visione, senza strategia, senza distinzione. Che ha pensato di poter usare la Palestina come simbolo totale senza sporcarsi le mani con l’estremismo che la abita. Oggi quel giocattolo gli è esploso in mano. E “non lo sapevamo” non basterà: segna il fallimento definitivo di una linea politica.

Sergio Filacchioni

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