Roma, 30 dic – Il 2026 si profila come un anno spartiacque per l’Armenia. Non tanto per un singolo evento, quanto per la convergenza di tre processi simultanei: la normalizzazione incompiuta con Azerbaigian e Turchia, il riposizionamento internazionale e una profonda frattura interna che attraversa politica, società e identità nazionale. Yerevan entra in questo passaggio storico in una condizione di debolezza strutturale, costretta a negoziare la propria sopravvivenza strategica più che il proprio sviluppo.
La pace come concessione unilaterale
Dopo la sconfitta definitiva sull’Artsakh e la pulizia etnica del settembre 2023, il governo armeno ha scelto una linea di drastica rinuncia. La questione del Nagorno-Karabakh è stata formalmente chiusa, i diritti degli armeni espulsi non vengono più sollevati nelle sedi internazionali e l’opzione militare è stata pubblicamente esclusa. Persino i simboli storici vengono progressivamente rimossi: la cancellazione del Monte Ararat dai timbri di frontiera non è un dettaglio folkloristico, ma il segnale di una politica che tenta di disinnescare il conflitto attraverso l’auto-limitazione identitaria.
Il problema è che questa strategia non trova riscontro speculare a Baku. L’Azerbaigian continua a parlare di “corridoio di Zangezur” in termini extraterritoriali, a evocare l’Armenia come parte delle proprie “terre storiche” e a rafforzare il proprio apparato militare. La pace viene presentata come un esito inevitabile, ma alle condizioni di una sola parte. Anche il progetto di normalizzazione con Ankara resta ostaggio della volontà azera: la Turchia continua a subordinare ogni apertura verso Yerevan alla firma di un trattato di pace con Baku, confermando la natura asimmetrica del processo.
In teoria, la riapertura delle comunicazioni regionali potrebbe rappresentare un’opportunità storica: collegamenti diretti Armenia-Iran, Armenia-Russia, apertura del confine turco. In pratica, senza garanzie reali e reciproche, il rischio è quello di una pace apparente che cristallizza la sconfitta armena e prepara nuove pressioni future.
Europa, Russia e l’equilibrismo impossibile
Sul piano internazionale, l’Armenia tenta un difficile slalom strategico. Da un lato, l’avvicinamento all’Unione Europea è sempre più marcato: la nuova agenda di partenariato strategico, il dialogo sulla liberalizzazione dei visti, la missione civile europea lungo il confine con l’Azerbaigian e, soprattutto, l’organizzazione a Yerevan dei vertici europei del maggio 2026. Per la prima volta dall’indipendenza, l’Armenia si propone come piattaforma di discussione sul futuro del continente.
Eppure, questo europeismo resta ambiguo. Non esiste una candidatura formale all’UE, l’Armenia continua a far parte dell’Unione Economica Eurasiatica e nel 2025 ha persino tentato l’adesione all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Scelte che riflettono più una necessità di sopravvivenza più che una strategia coerente. La compatibilità tra questi spazi geopolitici è più teorica che reale, e il rischio è quello di restare intrappolati in una zona grigia senza veri alleati.
I rapporti con la Russia, intanto, si sono deteriorati. L’alleanza militare esiste ancora sulla carta, ma la guerra in Ucraina ha ridotto drasticamente la capacità di Mosca di proiettare influenza nel Caucaso. La marginalizzazione russa nei nuovi accordi sulle comunicazioni regionali, ora a trazione statunitense, aggiunge ulteriore tensione. Il Cremlino resta un attore ingombrante ma indebolito, potenzialmente tentato di interferire nella politica interna armena, soprattutto in vista delle elezioni del giugno 2026.
Una società divisa su tutto
È proprio sul terreno interno che le contraddizioni emergono con maggiore forza. Le elezioni parlamentari del 2026 si svolgeranno in un clima di polarizzazione estrema. Nikol Pashinyan punta a un terzo mandato consecutivo, presentandosi come l’uomo della pace e della stabilità economica. La sua narrazione è semplice e brutale: scegliere tra pace e guerra, tra normalità e caos.
Ma questa semplificazione nasconde fratture profonde. Una parte significativa della società rifiuta l’idea che l’Artsakh possa essere archiviato come una parentesi chiusa, rivendicando il diritto al ritorno degli armeni espulsi e una memoria politica che il governo sembra voler cancellare. Un’altra linea di frattura riguarda l’orientamento internazionale: per alcuni l’Occidente rappresenta l’unica via d’uscita, per altri l’avvicinamento a UE e USA coincide con una subordinazione indiretta all’asse turco.
A tutto questo si aggiunge lo scontro con la Chiesa Apostolica Armena. L’attacco frontale alla sua leadership, gli arresti di figure ecclesiastiche e la delegittimazione simbolica del Catholicos hanno colpito uno dei pilastri storici dell’identità nazionale armena. La reazione è stata durissima, soprattutto nella diaspora, accentuando una frattura che non è solo religiosa ma culturale e politica.
Un bivio senza garanzie
L’Armenia si avvicina al 2026 in una condizione di fragilità strategica e tensione interna. La pace promessa rischia di essere una pace imposta, l’apertura europea un processo incompiuto, il distacco dalla Russia una scommessa senza rete di sicurezza. Le scelte che verranno compiute nei prossimi mesi non determineranno soltanto una linea di politica estera, ma il modo stesso in cui lo Stato armeno intende sopravvivere in un Caucaso sempre più dominato da rapporti di forza.
Più che un nuovo inizio, il 2026 potrebbe rivelarsi un imbuto molto stretto. E come spesso accade nei momenti di transizione forzata, il prezzo da pagare rischia di essere più alto di quanto oggi si voglia ammettere.
Vincenzo Monti