Roma, 19 dic – Lo sgombero di ieri mattina di Askatasuna è il momento in cui una contraddizione che la sinistra torinese teneva congelata da anni esplode tutta insieme. Non è l’effetto di un’improvvisa scoperta, né la conseguenza di un singolo episodio giudiziario. È la chiusura brutale di una fase politica: quella in cui l’amministrazione Lo Russo ha provato a trasformare un centro sociale antagonista in un soggetto “compatibile”, normalizzabile, addomesticabile dentro un quadro istituzionale.
Il patto tra Askatasuna e Lo Russo
Il patto di collaborazione nasceva da una scelta politica precisa: tenere Askatasuna dentro il perimetro del gestibile, sottraendola allo scontro frontale e integrandola, di fatto, in una rete di rapporti pubblici. I fatti di ieri mattina hanno rotto definitivamente questo schema. Non perché rivelino qualcosa di nuovo, ma perché rendono impossibile continuare a fingere che quella integrazione stesse funzionando. La dichiarazione del sindaco sulla decadenza del patto è emblematica proprio per ciò che non è. Non c’è una presa di posizione, non c’è una valutazione politica, non c’è un’assunzione di responsabilità. C’è il linguaggio neutro dell’atto dovuto. È la certificazione che il Comune non governa più la situazione, la subisce. Ed è qui che si consuma la vera resa dei conti: non tra Stato e antagonisti, ma all’interno dello stesso campo progressista. Le reazioni di ieri parlano chiaro. AVS grida alla “dimostrazione muscolare”, mentre altri alleati di maggioranza rivendicano di aver sempre avuto ragione o si rifugiano nel richiamo astratto alla legalità. Nessuno difende più il patto come scelta politica. Nessuno lo rivendica come modello. È il segnale che Askatasuna da risorsa simbolica era diventata un costo. E quando un costo supera una certa soglia, viene scaricato.
Il mito dell’autonomia dei CSOA
Qui sta il punto che va oltre Torino. Lo sgombero di ieri mattina smaschera una volta per tutte la retorica dell’autonomia dei CSOA. Askatasuna non viene meno perché repressa da uno Stato improvvisamente cattivo, ma perché viene meno il sistema di relazioni che ne garantiva la sopravvivenza. Patti di collaborazione, riconoscimenti informali, tolleranze amministrative, accesso diretto o indiretto a risorse pubbliche: è questo l’ossigeno reale dei centri sociali contemporanei. Senza questo circuito, l’autogestione non regge. Non regge sul piano materiale, non regge su quello politico, non regge su quello simbolico. Lo sgombero di ieri mattina dimostra che i CSOA non sono “fuori dal sistema”, ma una sua articolazione periferica, utile finché serve a gestire conflitto, disagio e consenso in certi territori. Quando smettono di essere utili, vengono trattati come ciò che sono sempre stati: un problema da rimuovere. Askatasuna non è vittima di una repressione eccezionale. È vittima del venir meno delle coperture che l’avevano resa sostenibile. La sinistra istituzionale non la combatte: semplicemente smette di difenderla. È una differenza cruciale, perché dice molto di più di qualsiasi slogan sulla legalità o sulla sicurezza.
La resa dei conti
Lo sgombero di ieri mattina non chiude solo l’esperienza di un centro sociale. Chiude una fase in cui una certa galassia antagonista ha potuto raccontarsi come autonoma mentre viveva, nei fatti, di bandi, patti e contributi pubblici. La resa dei conti è tutta qui. E riguarda non solo Torino, ma l’intero sistema dei CSOA in Italia, messi di fronte a una verità che da anni cercano di evitare: senza il sostegno – diretto o indiretto – delle istituzioni che dicono di combattere, la loro autonomia dura quanto la convenienza politica di chi governa.
Vincenzo Monti