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Andare oltre il Muro (senza nostalgie per la Cortina di ferro)

by Sergio Filacchioni
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Muro

Roma, 9 nov – Trentasei anni fa il Muro di Berlino crollava. Un evento che per molti segnò la fine della storia, per altri l’inizio di una nuova speranza. Ma se a distanza di oltre tre decenni la memoria di quella notte continua a scuotere le coscienze europee, è forse giunto il momento di guardare a quell’episodio senza retorica e senza nostalgia. Perché se troppo spesso, oggi, una certa politica disillusa si rifugia nella malinconia della “cortina di ferro”, dal lato liberale si commette un errore speculare: trasformare questa ricorrenza in una liturgia del libero mercato.

Il Muro di Berlino e il decennio perso

Una verità balza agli occhi in modo evidente: l’Europa, da quell’evento epocale, non ha saputo trarre una lezione politica all’altezza del proprio destino. Nel 1989 si dissolse “apparentemente” l’intero equilibrio imposto a Yalta, che per mezzo secolo aveva diviso il continente in due blocchi sotto tutela straniera. Con il 1989 si aprì un’occasione storica: per la prima volta dal 1945, l’Europa avrebbe potuto emanciparsi dal doppio protettorato di Washington e Mosca e trasformare la fine della guerra fredda in una vera rinascita politica. Quella congiuntura storica — un decennio sospeso tra due epoche — offriva le condizioni ideali per dotarsi di una vera strategia continentale: costruire una difesa comune, rafforzare le istituzioni politiche oltre la logica economica, e proporre un modello sociale europeo capace di unire Est e Ovest in un destino comune. Invece, l’Unione nata dal Trattato di Maastricht (1992) imboccò la via opposta: quella della integrazione amministrativa e monetaria, fondata sulla stabilità economica e sulla convergenza dei bilanci, ma priva di un progetto di sovranità politica. Perchè alla grande bugia della “fine della storia” ci hanno creduto un po’ tutti.

Il trauma europeo, da Belgrado a New York

Poi arrivò il 1999, con la guerra del Kosovo e i bombardamenti su Belgrado. Nel cuore del continente, la NATO — senza mandato ONU — colpiva la capitale di uno Stato europeo in nome dei “diritti umani”. Un nuovo trauma europeo: la dimostrazione che l’Europa, priva di volontà politica, restava un territorio di influenza. Due anni più tardi, l’11 settembre 2001 sancì la chiusura definitiva di quella parentesi storica. Gli Stati Uniti, colpiti al centro del proprio impero, inaugurarono la “guerra al terrore” e ridefinirono il sistema internazionale su basi che ancora oggi facciamo fatica a superare. L’Europa, che non aveva saputo costruire una propria dottrina di sicurezza, si ritrovò di nuovo in posizione ancillare: proprio quell’anno abortì l’Helsinki Headline Goal, ovvero l’obiettivo di creare (entro il 2003) una forza di reazione rapida europea di 60.000 uomini, capace di intervenire autonomamente in crisi internazionali. Insomma, tra il crollo di Mosca e l’attacco a New York, il continente ebbe dieci anni per definire se stesso, e li impiegò per stabilire parametri economici. Quando le illusioni furono travolte dal ritorno della forza— americana, cinese, russa — l’Europa si accorse troppo tardi di aver rinunciato alla propria.

Senza nostalgia per la cortina di ferro

Ammettere questo non vuol dire ripararsi nella nostalgia della Cortina di Ferro, ma di riconoscere che la libertà non è automaticamente garantita dall’abbattimento di un muro. Caduto quello di Berlino, se ne è alzato un altro: invisibile, ma non meno potente. È il muro del conformismo liberale, della globalizzazione anonima, del pensiero unico che ha sostituito il controllo poliziesco con l’omologazione culturale. Se la repressione sovietica voleva trasformare il mondo in una cella, quella occidentale preferisce farne un recinto per animali domestici. Lo scrisse Eduard Limonov, e mai come oggi le sue parole suonano attuali. Viviamo in un grande ospizio, dove la libertà è concessa solo nella misura in cui non disturba i mercati o le nuove ortodossie morali. È una libertà sorvegliata, addomesticata, che insegna a scegliere tra opzioni già decise da altri. Il cittadino, ridotto a consumatore, oggi è controllato da un soft power che regola i suoi desideri, i suoi gusti, le sue opinioni. Limonov distingueva tra due tipi di dominio: quello duro, che imprigiona il corpo, e quello morbido, che addomestica l’anima. Stessa diagnosi fatta da Debord: la società dello spettacolo non reprime, distrae. L’Occidente post-’89 ha scelto questa via. La libertà è diventata libertà di scegliere tra prodotti e partiti, ma sempre dentro un orizzonte stabilito. Fukuyama celebrò la vittoria del liberalismo, ma il suo “ultimo uomo” si è rivelato esattamente come lo descriveva Nietzsche: un essere senza slancio, che confonde il benessere con la libertà. Ma in fondo, reagire al nichilismo liberale con il culto di un vecchio ordine non è rinascita, ma regressione. Perchè il liberalismo altro non è che la versione più efficace del marxismo.

L’Europa sociale e sovrana da rilanciare

Eppure, in questa lunga parabola europea, qualcosa di irriducibile ha continuato a resistere. L’idea di un modello sociale fondato sulla dignità del lavoro, sul principio di solidarietà e sulla partecipazione comunitaria. Un’eredità che affonda le radici nella tradizione cristiano-sociale, nella socialdemocrazia nordica, nel corporativismo fascista e nella dottrina sociale della Chiesa: un mosaico di esperienze che, pur diverse, hanno dato vita a un sistema che non ha eguali nel mondo. Né gli Stati Uniti, dove il cittadino resta subordinato alla Company, né la Russia, dove tutto ruota intorno allo Stato, conoscono quel rapporto organico tra individuo e società che ancora, pur tra mille crisi, caratterizza l’Europa. Questa è la vera frontiera da difendere: non il mito di un passato autoritario, né la caricatura del “mercato libero” come se fosse libertà tout court, ma la costruzione di un’Europa sociale e sovrana. Sovrana perché capace di decidere da sé, non per reazione o imitazione. Sociale perché fondata su una cultura del legame, non sulla logica dello scambio. A trentasei anni dal crollo del Muro, l’Europa è ancora divisa. Di nuovo tra Est e Ovest, ma soprattutto tra chi vuole tornare a essere popolo e chi preferisce restare consumatore. Tra chi sogna un continente protagonista e chi accetta la marginalità come destino. Le nuove cortine sono fatte di disillusione, di rassegnazione, di paura. Ecco perchè la ricorrenza del 9 novembre non deve essere celebrata come un funerale o come una sagra della libertà astratta. Deve ricordarci che la libertà non è mai data una volta per tutte: va riconquistata ogni giorno, contro ogni muro visibile e invisibile.

Un mito nuovo capace di ispirare

Non sarà demonizzando ogni tentativo d’emancipazione europea che si darà vita a qualcosa di diverso dall’oggi, o dal passato. Andare oltre la retorica sulla “giornata della libertà” non è solo auspicabile, ma doveroso. Se l’Europa ha dietro di sé millenni di civiltà, si trova allo stesso tempo davanti un bivio: restare nel recinto del mercato globale, addomesticata e inoffensiva, o di rialzarsi come potenza autonoma, spirituale e politica. Se il 1989 ha visto il crollo di un muro esterno, il muro antifascista di contenimento, oggi spetta ad una nuova generazione demolire quello interiore: quello che ci fa credere che la storia sia finita, e che non ci sia più nulla per cui combattere. «Perché l’Europa – come scrisse Faye – non rinascerà da una utopia o da una nostalgia, ma da un mito nuovo, capace di ispirare, di raccogliere, di mettere in movimento».

Sergio Filacchioni

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