Roma, 7 nov – Doveva essere la grande “mobilitazione del quartiere”, l’alzata di scudi contro CasaPound. Doveva, appunto. Le manifestazioni organizzate mercoledì e giovedì all’Esquilino, lanciate da Anpi, Arci, PD e una costellazione di sigle della sinistra, si sono rivelate per quello che sono: due passerelle autoreferenziali, con più slogan che partecipanti.
Il flop degli antifascisti all’Esquilino
Annunciate come oceaniche, le piazze erano vuote ancora prima di cominciare. In tutto, tra i due giorni, non più di cinquanta persone: pensionati con la bandiera dell’Anpi, qualche consigliere in cerca di visibilità e i soliti professionisti dell’antifascismo. Tutti riuniti davanti ai giornalisti, convinti di rappresentare “il quartiere in rivolta”. Ma il quartiere vero, quello che vive ogni giorno le strade tra Termini e Piazza Vittorio, era altrove: a lavorare, a badare ai figli o semplicemente a ignorare la recita. Giustamente. L’antifascismo arriva all’Esquilino come un corpo estraneo. Lo fa con il solito copione: denuncia, vittimismo, appello alla “resistenza” e foto di gruppo per i social. Poi si dissolve, lasciando dietro di sé solo volantini e la sensazione di un rituale vuoto. La retorica è sempre la stessa: “CasaPound va chiusa”, “quartiere ostaggio dei fascisti”, “lotta per la democrazia”. Ma chi vive davvero all’Esquilino sa che i problemi veri sono altri: criminalità diffusa, spaccio, insicurezza, degrado. Eppure, paradossalmente, gli stessi che parlano di sicurezza sono gli artefici di questo disastro. Sono gli amici dello Spin Time, delle cooperative che gestiscono l’accoglienza e dei centri sociali che si spartiscono palazzi occupati. Gli stessi che accusano CasaPound di “intimidire il quartiere” ma tacciono sull’assalto subito da via Napoleone III, ancora senza indagati. Gli stessi che gridano allo scandalo per presunte “aggressioni fasciste” che si sgonfiano puntualmente in denunce tardive e prognosi di zero giorni.
Loro passano, CasaPound resta
Il contrasto è evidente: da una parte un gruppo che, nel bene o nel male, è presente all’Esquilino da vent’anni, con famiglie, bambini, attività culturali e solidaristiche. Dall’altra, chi arriva per due sere, agita il pugno e se ne torna a casa, magari passando da un aperitivo. E mentre questi ultimi si gonfiano d’indignazione a comando, i primi restano. Restano nelle vie dove la polizia non passa più, dove gli immigrati dormono nei portoni, dove la sera si ha paura a camminare. Chi abita davvero il quartiere sa che CasaPound non è un’infiltrazione, ma una realtà radicata. Da vent’anni, lì dove altri vedono solo degrado, si organizzano conferenze, raccolte alimentari, momenti di confronto politico e culturale. Tutto alla luce del sole, senza un euro di finanziamento pubblico. Mentre gli altri, con le loro sigle e le loro bandiere, si presentano una volta l’anno per ricordare a sé stessi di esistere. Alla fine, resta la solita sproporzione tra parole e fatti. Sui giornali, titoli roboanti: “L’Esquilino si ribella”. Nella realtà, qualche decina di persone che si battono le mani tra loro.
La misura di un fallimento
Eppure basta guardare i loro stessi canali social per capire la misura del fallimento. Nessuna foto pubblicata durante l’iniziativa. E quei post che annunciavano la “grande sollevazione dell’Esquilino” travolti da centinaia di commenti ironici e infastiditi degli abitanti del quartiere: gente stanca di teatrini, di slogan prefabbricati e di un antifascismo che parla di “togliere i manifesti di CasaPound”. Sul web, dove si sentono forti e numerosi, gridano alla mobilitazione popolare; nella realtà, non riempiono nemmeno un marciapiede. È lo specchio perfetto della sinistra romana del 2025: tutta immagine, nessuna sostanza. Un antifascismo virtuale che non trova più pubblico, perché il popolo – quello vero – ha smesso da tempo di credergli.
Vincenzo Monti