Roma, 22 mag – Nel 1937 l’Università di Losanna, nel cuore della Svizzera neutrale e progressista, decise di conferire un dottorato honoris causa a Benito Mussolini. Non fu un errore. Fu un atto consapevole, meditato, solenne. Il testo dell’epoca parla chiaro: “Per aver concepito e realizzato nella sua patria un’organizzazione sociale che ha arricchito la scienza sociologica e lascerà una traccia profonda nella storia”.
L’Università di Losanna e il Dottor Mussolini
Oggi, a distanza di quasi un secolo, gli eredi morali di quell’ateneo – che pure non ha mai revocato formalmente il titolo – si affannano a inscenare una penosa cerimonia di pentimento collettivo. Mostre, convegni, petizioni, pannelli didattici, videointerviste, campagne online. Il tutto per dimostrare quanto siano cambiati, quanto ora siano “maturi”, “autocritici”, “responsabili”. Il punto è che nessuno ha il coraggio di dire la verità. Il dottorato a Mussolini fu assegnato perché aveva messo ordine in un Paese in preda al caos, perché aveva costruito uno Stato moderno, perché aveva restituito coesione a un popolo. Non fu un lapsus, ma un riconoscimento dell’efficacia storica, dell’impatto reale. Gli stessi ambienti accademici che oggi si stracciano le vesti, allora vedevano nel fascismo una risposta concreta a una crisi sistemica. E non lo pensavano solo a Losanna. Pareto, Gentile, Heidegger: tutta una generazione di pensatori europei non vedeva nel fascismo un accidente barbarico, ma un fenomeno moderno, capace di superare le fratture del parlamentarismo decadente. Che oggi si preferisca ridurre tutto a una “deviazione autoritaria” è il segno di un tempo incapace di confrontarsi con la storia al di fuori della liturgia antifascista.
Il fascismo come “filosofia dell’azione”
Non è possibile comprendere il “Dottor Mussolini” senza considerare il contesto culturale e filosofico in cui maturò la sua laurea. Sarà stato fuoricorso, ma sicuramente non fuori dalla storia. All’epoca, il Fascismo non era visto come un regime repressivo, ma come una forma storica dotata di una sua coerenza teorica. Pensatori come Giovanni Gentile, con il suo idealismo attualista, e Vilfredo Pareto, con la sua sociologia delle élite, offrirono strumenti concettuali che molti interpreti europei – anche fuori dall’Italia – ritenevano in grado di spiegare e giustificare un nuovo modello di Stato. In questa prospettiva, Mussolini veniva interpretato come fautore pratico di una filosofia dell’azione, in cui lo Stato assumeva il ruolo di garante dell’unità spirituale e sociale della nazione. Il concetto stesso di “Stato etico”, ripreso da Hegel e rielaborato da Gentile, trovava nella figura del Duce una manifestazione concreta: il potere non più come semplice amministrazione, ma come espressione di volontà, decisione, storia. Tutto questo – oggi giudicato con legittimo rigore critico – allora era oggetto di interesse e rispetto anche in ambito accademico. Il problema non è che Mussolini ricevette un titolo: il problema (se così lo dobbiamo chiamare) è che molte università, filosofi e intellettuali riconoscevano nel Fascismo una risposta moderna alle fratture della società liberale. Chi oggi pretende di giudicare quel passato solo con categorie morali, senza ricostruirne la complessità teorica, finisce per rendere la memoria storica una caricatura. Ed è proprio questa rimozione – semicolta, selettiva, strumentale – che impedisce oggi un confronto autentico con il Fascismo come fenomeno non solo politico ma anche culturale.
Una frattura nella storia
Il povero Jean Wintsch, unico docente a opporsi al titolo nel 1937, viene oggi santificato come eroe solitario. Fa comodo avere un “buono” da sbandierare, così da non guardare in faccia il resto del corpo accademico che votò in silenzio, senza obiezioni. Ma la vera domanda è: che fine ha fatto quel mondo che non aveva paura di riconoscere il valore del potere, dell’ordine, della forza nella storia? Già, ora si preferisce rimuovere. Ma non revocare, sia chiaro: troppo scomodo, troppo compromettente. Meglio la farsa della memoria attiva, il museo della colpa dosata, la pedagogia politicamente corretta. Si piange il passato ma si custodisce il titolo. Ipocrisia allo stato puro. Del resto il Fascismo – che piaccia o meno – ha plasmato il Novecento. Le università lo studiarono, lo premiarono, lo osannarono. Solo dopo, quando il vento cambiò, si rilesse tutto con lenti da catechismo resistenziale. La mostra di Losanna è solo l’ennesimo atto di un dramma grottesco: un’istituzione che si accusa da sola, ma senza conseguenze. Perché pentirsi in pubblico, oggi, è un investimento politico. Non una verità storica.
Sergio Filacchioni