Roma, 6 nov – La vittoria di Zohran Mamdani nella corsa a sindaco di New York City è stata salutata come un terremoto politico. Figlio di immigrati ugandesi, esponente della sinistra radicale del Partito Democratico e volto emergente dei “Socialists of America”, Mamdani ha conquistato la Grande Mela con un programma che promette università e trasporti gratuiti, blocco degli affitti, aumento delle tasse per i miliardari, case popolari per tutti e supermercati sotto controllo comunale. Un manifesto che ha scatenato l’entusiasmo della sinistra internazionale e acceso nuove tensioni nel campo democratico americano.
Mamdani, il nuovo Obama della sinistra
Nel suo discorso della vittoria, tenuto al Brooklyn Paramount Theater poco prima di mezzanotte, Mamdani non ha risparmiato nessuno: ha definito Donald Trump “un despota”, ma ha anche accusato la leadership del suo stesso partito di essere “corporativa e debole”. Il tono è quello della rivoluzione morale, non della gestione del potere. Ma in Italia, come sempre, è bastata una notte americana per far partire l’eco provinciale. Ilaria Salis ha salutato la vittoria con toni da internazionalismo anni ’70: “Quando la classe lavoratrice vince, ovunque diventiamo più forti”. Fratoianni ha rilanciato: “Ha vinto perché ha messo davanti i diritti della maggioranza. È il nostro programma”. Persino Nicola Zingaretti si è affrettato a collegare la sorte dei democratici americani al destino del Pd: “Ha vinto chi ha scelto di ridare voce ai più fragili”. E infine Elly Schlein, in perfetto stile da hashtag, ha parlato di “splendida vittoria” contro il carovita, di “campagna collettiva” e di “città che tutte e tutti si possano permettere”. Insomma, un coro perfettamente orchestrato: la sinistra italiana, priva di idee, si è trovata un nuovo santino da esibire. L’entusiasmo è talmente uniforme da far apparire Alan Friedman, solitamente allineato, quasi eretico quando a L’Aria che tira ha definito Mamdani “un pasticcio”, “un populista che farà disastri” e “un boomerang per i democratici”. Secondo il giornalista americano, New York non rappresenta l’America: è un’isola ideologica della sinistra radicale, una vetrina del progressismo urbano pronta a esplodere sotto il peso delle proprie contraddizioni.
Le metropoli occidentali sono bolle ideologiche
Ed è proprio qui che la vicenda newyorkese diventa simbolica. Ogni grande metropoli occidentale – New York, Parigi, Londra, Milano, Roma – finisce ormai nelle mani della stessa ideologia. Non è un caso: è un sistema. Le città globali non vivono più di produzione ma di percezione, non di realtà ma di rappresentazione. Si nutrono di comunicazione, immagine, consenso morale. In questo contesto, la sinistra eccelle: vende moralità invece di risultati, inclusione invece di efficienza. E un elettorato urbano sempre più dipendente dallo Stato, dai fondi pubblici e dai bandi, si riconosce in chi promette di tenere in vita il sistema che lo mantiene. Ma il prezzo è altissimo. A New York la criminalità è tornata ai livelli degli anni ’90; a Parigi interi quartieri sono diventati zone franche; a Londra la sicurezza è un ricordo; a Milano si pagano affitti da follia mentre la qualità della vita precipita. L’unica cosa che cresce è la retorica della “città inclusiva”, dietro la quale si nasconde un progressismo di rendita, parassitario e autoreferenziale. La verità è che le metropoli occidentali non sono più laboratori di avanguardia, ma bolle ideologiche in cui la realtà viene costantemente rinegoziata in base a ciò che è accettabile dire, non a ciò che è necessario fare. Sono città che si raccontano più di quanto si amministrino, in cui il linguaggio sostituisce l’azione e la virtù segnalata ha preso il posto del risultato concreto. Ogni decisione deve apparire “giusta”, “inclusiva”, “etica” – anche se fallisce. E quando fallisce, la colpa è sempre di qualcun altro: del mercato, della destra, del populismo, mai dell’ideologia che governa.
Ecosistemi che non producono valore reale
Il paradosso è che questo modello urbano, celebrato come progresso, vive di assistenzialismo mascherato da innovazione. I fondi pubblici tengono in piedi ecosistemi che non producono valore ma redistribuiscono consenso; il lavoro si sposta dal produrre al gestire, dal costruire al comunicare. La sinistra, in questo scenario, ha smesso di rappresentare la classe lavoratrice reale per trasformarsi nella voce di una classe simbolica: dipendenti pubblici, operatori culturali, attivisti, intellettuali precari. Tutti uniti da una stessa dipendenza: quella dallo Stato. Da qui il suo consenso nelle metropoli e il suo tracollo ovunque si torni a lavorare, a costruire, a rischiare.
Sergio Filacchioni