Roma, 12 lug – Luglio, per gli amanti del calcio, è tempo di ricorrenze – liete e meno liete – per la nazionale azzurra e per tutti gli appassionati di essa. Esaltanti trionfi e cocenti delusioni, spalmate tra Mondiali ed Europei. Ma nella mia personale esistenza ed in quella di tanti della mia generazione, un certo modo di vivere e seguire il calcio può essere racchiuso tra il 5 luglio 1982 e il 9 luglio 2006, tra Italia-Brasile ed Italia-Francia.
Correva l’anno 1982…
Nel 1982 l’Italia stava uscendo a fatica dagli anni di piombo, per lanciarsi nel futuro, magari effimero, periodo della “Milano da bere” (ironicamente ribattezzata dai punk meneghini “Milano da pere”, visto il tragico consumo di eroina). Nel mentre il movimento italiano del pallone non se la stava passando affatto bene, dato il recente scandalo del calcio scommesse, con tanto di giocatori arrestati negli stadi, che aveva fatto disamorare parecchi appassionati. Ma io ero un bambino di sette anni e delle vicende sociali, politiche e sportive del mio paese sapevo gran poco. Il Milan era appena retrocesso in Serie B per la seconda volta, ma il dramma vissuto da mio padre non era stato il mio.
In effetti non avevo alcun ricordo di partite fino all’inizio di España ’82, con la gara inaugurale che vide il Belgio imporsi a sorpresa contro i campioni del mondo in carica dell’Argentina di Maradona. Mi innamorai del calcio così, senza un preciso perché. Ti ci innamori così di punto in bianco, come quando ti innamori di una donna, perché fede calcistica ed amore non seguono mai razionalità. Mi guardai così praticamente tutte le partite, fino a quando, terminata la prima fase del Mondiale, partii per le vacanze con i miei genitori, destinazione un villaggio turistico a Palinuro.
La tripletta di Paolo Rossi
Si arriva così al fatidico 5 luglio. Gli Azzurri affrontano il Brasile con l’obbligo di vincere per poter accedere alle semifinali. Ok, vincere si faceva per dire: quel Brasile era talmente forte che si parlava di successo se solo fossimo stati sconfitti con onore. Si gioca allo Stadio Sarriá di Barcellona (casa dell’Espanyol e demolito nel 1997) in un pomeriggio caldissimo, come caldissimo faceva in spiaggia a Palinuro.
Gli adulti come mio padre si chiusero in una stanzetta con un piccolo televisore a fumare una sigaretta dopo l’altra, mentre i bambini come me giocavano in spiaggia, ma con un occhio sempre attento al risultato e con mia mamma che cercava stoicamente di comprarmi un gelato da qualcuno che non avesse abbassato le serrande per seguire la partita. Enzo Bearzot si ostinava, contro tutta la solita crudele stampa, a schierare il suo pupillo Paolo Rossi (nome banale, fisico banale e fino ad allora un ectoplasma in campo). Rossi non è che fece granché nemmeno quel giorno, ma tre volte si fece trovare solo davanti a Valdir Peres e tre volte lo castigò, rendendo vane le reti di Sócrates e Falcão.
Dino Zoff, ad un minuto dal termine, non si sa bene come, bloccò sulla linea un colpo di testa da distanza ravvicinata di Oscar e fu 3-2 per noi. Festa grande a Barcellona tra i tifosi Azzurri (bei tempi quando per assistere ad una partita simile bastava mettersi in viaggio dall’Italia, andare sotto lo stadio e recuperare in qualche modo un biglietto, cosa effettivamente fatta da un mio amico veronese) e anche per noi bambini in spiaggia.
Da Italia-Brasile a Italia-Francia
Mancavano ancora due partite, ma in quel momento tutti avemmo la certezza che saremmo diventati noi i campioni. Io di sicuro ebbi la sicurezza che il calcio, da lì in poi, sarebbe stato la costante della mia esistenza, accompagnandone i naturali alti e bassi. Ma seppi anche che del calcio non volevo essere solamente un soggetto passivo, io il calcio volevo viverlo da protagonista. Ovviamente, non essendo abbastanza bravo con un pallone ai piedi, lo avrei vissuto sulle gradinate d’Italia, d’Europa e del mondo, come tifoso, come ultras… o semplicemente come fedele della religione laica per eccellenza. E questa cosa non coinvolse solamente me: quel Mondiale così straordinario diede il via ad un nuovo grande boom del nostro calcio e per anni le nostre gradinate divennero le più belle di tutto il pianeta. Tanto che uno non sapeva se guardare più la partita o le curve.
Passano ventiquattro anni e l’Italia è sempre lo stesso casino a livello sociale, politico e calcistico (ma va?) ed un nuovo scandalo ha sommerso la nostra Serie A ed ecco per ciò che ci si avvicina ai Mondiali di Germania 2006 con ben poche aspettative. Ed anche il mondo ultras è molto cambiato, tanti gruppi storici si sono sciolti (compreso quello in cui militavo io, vale a dire la Fossa dei Leoni) e la repressione è ormai talmente sistematica e severa che il gioco inizia a non valere la candela.

Il Mondiale tedesco, l’ultimo ballo
Ma un Mondiale in Germania merita l’ultimo ballo. Anche perché, grazie alla geniale intuizione del mio amico Mauro un anno prima, se l’Italia fosse per assurdo andata in finale avremmo avuto a disposizione il biglietto. Ed in finale la nazionale di Marcello Lippi ci va davvero ed io mi ritrovo il 9 luglio 2006 sugli spalti dello Stadio Olimpico di Berlino (città eternamente sospesa tra est ed ovest, tra passato e futuro) a soffrire per 120 minuti di battaglia contro i cugini di Francia.
Sugli spalti tanti volti noti da stadio, ma è l’ultimo sussulto. Sì, perché si iniziano a vedere soprattutto tanti tifosi consumatori, quelli più interessati al contorno che all’evento sportivo. Insomma quei tifosi “all’americana” che tanto oggi vanno di moda. Segna Zidane su rigore e pareggia Materazzi. Poi i due, durante il secondo tempo supplementare, si scontrano per una delle scene più iconiche della storia di questo meraviglioso sport… e sappiamo tutti come è andata. Si va ai rigori: sbaglia Trezeguet, segna Grosso (altro eroe improbabile…) e Cannavaro alza la coppa. Sono in estasi in mezzo ai miei amici per quella che sarà una lunghissima notte di festa.
Da allora il calcio mi vedrà sempre meno protagonista. Ma se ripenso a quella sera di diciannove anni fa il pensiero va a Ric di Venezia ed a Eugene di Londra, che ora non ci sono più. E mi rendo conto che quella fiamma nata il 5 luglio 1982 non si estinguerà mai del tutto.
Roberto Johnny Bresso