Roma, 21 lug – Alla fine il concerto di Valery Gergiev alla Reggia di Caserta, previsto per il 27 luglio nell’ambito della rassegna “Un’Estate da Re”, è stato annullato. La decisione è arrivata dopo settimane di polemiche, firme raccolte, appelli pubblici e una pressione mediatica che ha spaccato la politica e diviso l’opinione pubblica.
Ma Gergiev non è Dostoevskij
Facciamo chiarezza. Gergiev non è un artista qualunque: è un direttore d’orchestra di fama mondiale, ma è anche legato da anni al potere putiniano. Non si è limitato al silenzio, come molti colleghi russi hanno fatto per prudenza o paura. Gergiev ha apertamente sostenuto l’annessione della Crimea nel 2014, ha diretto concerti celebrativi a Palmyra dopo la riconquista siriana appoggiata da Mosca, è membro del Consiglio per la Cultura del Presidente della Federazione Russa e considerato un ambasciatore culturale del regime. Questi sono fatti, non opinioni. Per questo motivo, qualcuno potrebbe dire: bene così, giusto annullare. E in parte la questione è comprensibile. Non siamo davanti a un caso come quello, grottesco, della conferenza su Dostoevskij vietata in un’università italiana nel 2022 – episodio che fece il giro del mondo come simbolo di ignoranza e provincialismo. Dostoevskij, per inciso, fu un perseguitato politico, condannato a morte (poi graziato) dallo Zar e sempre contro il potere costituito. Gergiev è l’esatto opposto: è il direttore d’orchestra testimonial del Cremlino.
Censurare un concerto è un gesto maleodorante
Eppure, anche così, questa vicenda lascia un retrogusto amaro. Perché si può e si deve criticare Gergiev, si possono esprimere posizioni nette contro Putin e sulla guerra in Ucraina, come d’altronde facciamo qui sul Primato Nazionale dai primissimi giorni del conflitto, ma censurare un concerto resta un gesto maleodorante. Lo è per tre ragioni: la prima è per principio, perché chiudere le porte alla musica non è nel Dna Europeo; il secondo perchè significa dare ragione a chi accusa l’Europa di essere antirussa, di essere ipocrita e coltivare doppi standard; la terza è per come è avvenuto: con una mobilitazione trasversale, dove a sinistra e a destra si sono schierati tutti dalla stessa parte, nella recita già scritta del “valori democratici”. Pina Picierno, vicepresidente del Parlamento Europeo e storica esponente del Pd, ha dichiarato con enfasi: “La Campania non ospiterà un ambasciatore di Putin”. Alessandro Giuli, ministro della Cultura, ha parlato di “valori del mondo libero”. Così, paradossalmente, i due schieramenti che su quasi tutto si scontrano, si sono incontrati proprio lì dove si accusano reciprocamente di operare: nel campo della censura.
Oggi tocca a Gergiev
Non è un bel segnale. Ma d’altronde in Italia non è più una novità: basta che si crei un clima emotivo sufficientemente acceso per far scattare la chiusura di un evento culturale. Molta destra militante paga già da tempo questo approccio: l’altro ieri si impedisce una conferenza su Mazzini a scuola, ieri si consente una conferenza negazionista sulle Foibe, oggi tocca a Gergiev. Quando si abitua l’opinione pubblica alla censura selettiva, si apre una porta che poi è difficile richiudere. Si poteva fare diversamente? Certamente. Poteva non essere invitato Gergiev. Oppure poteva dirigere tranquillamente il suo concerto a Caserta. Un grande Nazione di solito si comporta così. Invece ci siamo infilati in un vicolo cieco, dove le “ragioni del cuore” e le “ragioni della propaganda” si sono confuse. E intanto la Russia, da Mosca, ci accusa di aver perso credibilità, di aver danneggiato la libertà culturale e di esserci piegati al lobbismo ucraino. Sono accuse ipocrite e strumentali, certo. Ma quando si mette il bavaglio alla musica, si offre all’avversario proprio l’argomento che stava cercando.
La disfunzione democratica
Siamo su un piano inclinato, in cui il sistema democratico sembra costretto a compiere scelte sempre più goffe, sempre più disperate (o dispettose), sempre più protettive verso un presunto popolino incapace di giudicare da solo. Come se dalla musica dovessero arrivare le illazioni di Lavrov e per magia contagiare tutti gli astanti. Si procede per divieti e scomuniche, come se si dovesse difendere la cittadinanza da un nemico assoluto, negandogli anche lo status di “nemico legittimo” che Carl Schmitt, pur non certo un democratico, riteneva imprescindibile per ogni politica sana. Insomma la censura – soprattutto quella “democratica” e ben vestita – puzza sempre di chiuso. E quando le democrazie scelgono la via della censura, confessano la loro disfunzione.
Sergio Filacchioni