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Linee di frattura: l’Europa e le prime sanzioni contro Israele

by La Redazione
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Roma, 12 sett – Per la prima volta nella storia dell’Unione europea, la Commissione guidata da Ursula von der Leyen ha proposto un pacchetto di sanzioni contro Israele. L’annuncio, arrivato durante il discorso sullo Stato dell’Unione al Parlamento europeo di Strasburgo, segna un punto di svolta simbolico: Bruxelles che alza la voce contro Tel Aviv.

L’iter per le sanzioni a Israele è in salita

Von der Leyen ha parlato apertamente di «carestia provocata dall’uomo» come strumento di guerra, annunciando la sospensione degli aiuti bilaterali a Israele (eccetto quelli diretti alla società civile e a Yad Vashem), sanzioni personali contro i ministri estremisti e la revisione parziale dell’accordo di associazione Ue-Israele che dal 1995 garantisce vantaggi commerciali al partner mediorientale. In gioco non ci sono solo misure punitive: c’è la credibilità internazionale di un’Europa che da mesi viene accusata di doppi standard tra Ucraina e Palestina. L’iter però è tutt’altro che scontato. Ogni sanzione necessita dell’approvazione del Consiglio dell’Ue, e dunque dell’unanimità dei 27 Stati membri. E qui emergono le linee di frattura interne: Germania, Ungheria e Repubblica Ceca hanno sistematicamente bloccato in passato qualsiasi tentativo di censura nei confronti di Israele. Berlino, pur con il cambio di tono del cancelliere Merz («non capiamo più lo scopo dell’offensiva su Gaza»), resta il principale fornitore europeo di armi a Tel Aviv, legata da vincoli storici e strategici che difficilmente verranno recisi. Orbán ha già fatto sapere che non accetterà misure punitive, coerente con la sua opposizione di principio a ogni sanzione esterna. Altri Paesi invece spingono sull’acceleratore: la Spagna di Pedro Sánchez, l’Irlanda, e più di recente anche la Francia, dove Macron valuta un riconoscimento coordinato dello Stato palestinese in sede Onu. È qui che si gioca il vero braccio di ferro: tra un’Europa che vorrebbe allineare le proprie parole ai fatti e un’Europa che resta prigioniera delle sue stesse contraddizioni.

Misure che rischiano di rimanere simboliche se non toccano gli armamenti

La realtà è che senza un embargo sugli armamenti, le misure annunciate rischiano di rimanere simboliche. Oggi gli Stati Uniti restano il primo fornitore di armi a Israele (due terzi delle importazioni negli ultimi anni), seguiti proprio dalla Germania (un terzo, tra fregate, missili e veicoli blindati). L’Italia compare solo come fornitore marginale – meno dell’1% – ma comunque in violazione della legge 185/1990 che vieta esportazioni verso Paesi in guerra. Nel 2024 Roma ha continuato a spedire armi e munizioni per oltre 5 milioni di euro, nonostante le dichiarazioni ufficiali di condanna delle operazioni israeliane. È su questo terreno che si misura l’inconsistenza europea: da un lato proclami sui diritti umani, dall’altro forniture militari che continuano a fluire. Se a Bruxelles qualcuno immagina di piegare Tel Aviv con le sanzioni, la risposta del governo Netanyahu non lascia dubbi: con toni messianici minaccia di annessione la Cisgiordania se dovesse concretizzarsi un riconoscimento coordinato dello Stato palestinese. Una linea dura, ribadita anche dal ministro degli Esteri Gideon Saar a Londra: «Azioni unilaterali contro Israele saranno accolte da azioni unilaterali di Israele». Più che un dialogo, è un’escalation diplomatica. E il 17 giugno, con la conferenza Onu ospitata da Francia e Arabia Saudita, potrebbe arrivare la resa dei conti.

L’Europa e la sua “lotta per il futuro”

Von der Leyen ha parlato di «lotta per il futuro» dell’Europa, evocando immagini forti: Gaza, Ucraina, la Polonia minacciata dai droni russi. Ha invocato unità, invocato un’Europa capace di decidere a maggioranza qualificata e non più prigioniera dell’unanimità. Ma la sostanza resta: l’Unione è divisa, spesso impotente, stretta tra gli interessi degli alleati d’Oltreoceano e la pressione delle opinioni pubbliche interne sempre più ostili alla guerra israeliana a Gaza. Il rischio è che la svolta annunciata si trasformi in un fuoco di paglia. Perché se davvero l’Europa vorrà incidere, dovrà toccare i due nervi scoperti: gli armamenti e i rapporti economici privilegiati. Finché ciò non accadrà, Israele continuerà a trattare Bruxelles come un interlocutore secondario.

Vincenzo Monti

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