Roma, 17 ott — Arriva nelle scuole italiane “Missione anti-bufala”, l’app ideata da La Repubblica insieme alla start-up Vik (Very Important Kids) e realizzata con il patrocinio del Parlamento Europeo. L’obiettivo ufficiale è quello di “educare i giovani a riconoscere le fake news”. Un’operazione presentata come un’iniziativa civica, che però contiene già in sé il rischio di trasformarsi in qualcosa di mostruoso.
Repubblica che disinforma mentre impara ad informarsi
Nel panorama italiano, La Repubblica rappresenta da tempo un soggetto politico travestito da quotidiano. La sua storia recente è una sequenza di campagne mediatiche costruite più per orientare che per spiegare. Dalle “primavere arabe” raccontate come favole democratiche alle guerre “umanitarie” salutate come atti di civiltà, passando per la narrazione della politica estera e la gestione pandemica, ogni grande vicenda internazionale è stata filtrata attraverso la lente dell’Occidente morale, progressista, liberal e woke. È un giornalismo che non descrive, ma giudica; che non informa, ma moralizza costantemente il dibattito pubblico. Oggi, dopo aver accumulato anni di letture distorte e semplificazioni ideologiche, Repubblica si propone di insegnare ai ragazzi come riconoscere le bufale. È un paradosso degno di un paese con una delle posizioni più basse nella classifica della libertà di stampa: chi per decenni ha confezionato verità prefabbricate si presenta ora come maestro di spirito critico. Un po’ come se un piromane fondasse la scuola dei pompieri.
Le bufale di chi vuole combatterle
In effetti, non serve scavare molto per ricordare alcuni casi emblematici. Quando nel 2003 si parlava delle “armi di distruzione di massa” in Iraq, Repubblica rilanciava senza esitazioni la tesi americana che giustificava l’intervento militare, una tesi poi smentita dagli stessi Stati Uniti. Durante le cosiddette “primavere arabe”, il giornale celebrava un presunto risveglio democratico che in realtà ha prodotto guerre civili e regimi islamisti. In Siria, i tagliagole di al-Nusra venivano descritti come “ribelli moderati”, e chi metteva in discussione quella versione veniva bollato come complottista o simpatizzante di Assad. Lo stesso schema si è ripetuto con la pandemia, in cui ogni voce dubbiosa veniva trattata come un reato d’opinione, e che continua a perpetuarsi con la politica interna, dove chiunque non si allinea alla visione liberal-progressista viene sistematicamente etichettato come “reazionario”, “fascista” e “nemico della democrazia”. Eppure, nonostante questo lungo curriculum di disinformazione ideologica, Repubblica viene oggi accolta nelle scuole come autorità morale sulla verità.
L’educazione trasformata in omologazione
La questione in effetti non è chi propone e patrocina cose, ma il ruolo che un giornale dichiaratamente schierato si arroga all’interno del sistema educativo nazionale. Insegnare ai giovani a leggere criticamente l’informazione è un obiettivo giusto; ma lasciare che a farlo sia una testata che ha fatto della partigianeria la propria cifra editoriale significa confondere l’educazione con l’addestramento al “politicamente corretto”. Dietro i quiz e le “mission” dell’app si cela una pedagogia più sottile e subdola di qualsiasi campagna mediatica: quella del pensiero corretto, in cui l’opinione accettabile coincide quasi sempre con quella pubblicata dalle grandi redazioni, dagli organi politici e culturali del pensiero progressista. Si parte con la promessa di combattere le bufale, ma si finisce con il costruire cittadini che diffidano del dissenso e accettano la verità come qualcosa da ricevere, non da cercare.
La vera educazione al pensiero critico
La scuola dovrebbe insegnare a mettere in discussione, non a ripetere: e lo diciamo sia che si tratti dei sogni sbufalatori di Repubblica sia che si tratti delle smanie di controllo e sicurezza “law and order” del centrodestra. Il giornalismo, in particolare, dovrebbe offrire pluralità di prospettive, non catechismi morali. Quando un quotidiano pretende di stabilire che cosa sia vero e che cosa no, tradisce la propria funzione civile e si trasforma in stampella del potere. “Missione anti-bufala” non è solo un progetto diseducativo: è un esperimento di colonizzazione culturale senza precedenti, in cui il sapere critico, che nasce anche dal dibattito culturale e lo scontro politico vivo, lascia il posto alla verità certificata. La lezione che Repubblica impartisce ai giovani è un incubo: non cercate la verità, chiedetecela.
Sergio Filacchioni