Roma, 25 nov – A leggere le ricostruzioni pubblicate dal Secolo XIX sull‘assalto antifascista di Genova, si ha la sensazione inquietante di assistere a un capovolgimento della realtà. Il giornalista Marco Fagandini riporta che la Procura intenderebbe accertare “l’esatta dinamica che ha portato a uno scontro evitato”, fino a suggerire che la tensione possa essere sorta come reazione a una provocazione dei militanti di CasaPound e del Blocco Studentesco presenti nella sede di via Montevideo. L’ipotesi, più che ardita, è completamente sganciata dai fatti.
Genova, dopo l’assalto anche la beffa
I militanti del Blocco Studentesco si trovavano all’interno dei propri locali, impegnati in un aperitivo privato e non esposti in alcun modo all’esterno. Non c’erano cortei paralleli, non c’erano presidi, non c’erano gesti visibili né iniziative politiche. L’unico elemento reale e concreto è la presenza di una manifestazione antifascista che, fin dalla sua convocazione nei giorni precedenti al tentativo d’assalto, aveva scelto la linea dello scontro, ripetendo slogan violenti, incitando alla chiusura della sede e arrivando a evocare apertamente la legittimità dell’aggressione fisica contro gli avversari politici. In questo contesto, parlare di “provocazione” proveniente da chi era dentro la sua sede e invisibile a chi manifestava fuori diventa un esercizio di fantasia o un tentativo di riscrivere la scena per attenuare responsabilità scomode. Se davvero qualcuno ha ritenuto quel contesto una provocazione, allora l’unico “atto ostile” imputabile ai militanti sarebbe la scelta di trovarsi, legittimamente, dentro un locale privato. Il che apre un problema enorme: se la semplice esistenza di una sede politica sgradita vale come provocazione, allora si sta costruendo un principio giuridico e morale che cancella la parità dei diritti e apre la strada alla giustificazione preventiva della violenza.
Un corteo che non avrebbe potuto svolgersi
Di fronte a questa distorsione, resta in piedi una domanda che nessuno ha il coraggio di affrontare pubblicamente. Per quale ragione le autorità continuano ad autorizzare manifestazioni dichiaratamente ostili a pochi metri dai luoghi che quelle stesse manifestazioni indicano come obiettivi politici da “chiudere” o “assediare”? In qualunque altro Paese europeo una simile sovrapposizione di luoghi sarebbe considerata una scelta amministrativa irresponsabile. A Genova, invece, viene trattata come un’abitudine normale, salvo poi stupirsi se la tensione esplode. A rendere il quadro ancora più opaco c’è l’informazione, riportata dalla stampa locale, secondo cui il preavviso del corteo sarebbe arrivato alla Questura tramite una mail “anonima”. È un punto che meriterebbe più attenzione di quanta gliene sia stata dedicata, perché il preavviso di manifestazione – per qualunque cittadino e qualunque associazione – richiede documenti, dati anagrafici, responsabilità precise, orari e modalità regolamentate. Se la mail era realmente anonima, il corteo non avrebbe potuto svolgersi. Se invece è stata ritenuta valida, allora esistono persone fisiche che devono rispondere di ciò che è accaduto, anche alla luce degli scontri e dei danneggiamenti documentati.
Un circolo vizioso di bugie
In questo clima, ogni tentativo di attribuire responsabilità ai militanti che si trovavano nella loro sede appare non solo privo di fondamento ma pericoloso sul piano culturale. È l’idea che chi è politicamente sgradito debba limitare la propria libertà per non irritare chi manifesta contro di lui. È un rovesciamento totale dello Stato di diritto, un modello in cui una parte è presunta colpevole per definizione e l’altra è sollevata da ogni responsabilità in virtù della propria appartenenza ideologica. Di fronte a ricostruzioni faziose e insinuazioni infondate, il Blocco Studentesco ribadisce di aver mantenuto una condotta irreprensibile nonostante lo scenario di guerriglia urbana scatenata contro la loro sezione. Le immagini, le testimonianze e la disposizione stessa della scena lo dimostrano con chiarezza. Di conseguenza, ogni tentativo di attribuire ai militanti un ruolo provocatorio rientra in una narrazione preconfezionata che non regge alla prova dei fatti. Chi alimenta questa narrazione si assume la responsabilità di alimentare un clima politico tossico, in cui la criminalizzazione selettiva diventa strumento di lotta e le garanzie costituzionali valgono solo per qualcuno. Ed è proprio per evitare che il racconto mediatico degeneri in diffamazione vera e propria che i legali del movimento valuteranno ogni possibile iniziativa nelle sedi opportune.
La realtà contro la caricatura
La vicenda di Genova non riguarda soltanto ciò che è accaduto in una sera di tensione. Riguarda il modo in cui questo Paese decide di gestire il pluralismo politico, i diritti associativi, la libertà di riunione e la responsabilità di chi organizza cortei ostili con l’intento dichiarato di chiudere sedi private. Riguarda il coraggio – o la paura – di applicare le regole a tutti, senza eccezioni e senza scorciatoie. Riguarda, in ultima analisi, la scelta se continuare a raccontare la realtà o sostituirla con la sua caricatura.
Vincenzo Monti