Roma, 14 lug – Dopo il sequestro della loro sede di via Tibone, i militanti di Avanguardia Torino hanno deciso di prendere parola e respingere le accuse, parlando apertamente di una repressione politica senza precedenti. La vicenda, già approfondita qui su Il Primato Nazionale, si arricchisce ora della posizione ufficiale della comunità, che punta il dito contro quello che definisce un attacco al dissenso identitario più che ad una minaccia pubblica.
Avanguardia Torino: “Ora parliamo noi”
“Al centro del provvedimento non ci sono atti violenti, non ci sono reati contro la persona o contro lo Stato, ma l’espressione pubblica – in piena trasparenza e legalità – di idee politiche e la partecipazione a commemorazioni storiche”, spiegano in una nota diffusa dai propri canali. Infatti, il comunicato denuncia una vera e propria gogna mediatica, con la diffusione di nomi e volti di militanti, in alcuni casi neppure formalmente indagati, esposti al pubblico ludibrio con toni allarmistici e deformazioni dei fatti. Vengono definite “ricostruzioni fantasiose” le accuse di “riti d’iniziazione”, di presunti “raid anti-immigrati” o di “simboli nazisti”, mai presenti, mentre si rivendica con chiarezza ciò che realmente si svolgeva all’interno della sede ora sotto sequestro: commemorazioni per Sergio Ramelli, Francesco Cecchin, Acca Larentia, e attività di controinformazione su immigrazione e Foibe. Iniziative identitarie e politiche che il movimento definisce giustamente “normali pratiche di militanza, svolte alla luce del sole”.
Il doppio standard repressivo
La riflessione sollevata da Avanguardia, però, va oltre il caso specifico. Il comunicato parla di “pericoloso precedente” e di un “inquietante restringimento degli spazi di libertà”, denunciando un doppio standard repressivo: nessuno, sottolineano i militanti torinesi, si è mai sognato di sequestrare le sedi occupate da Askatasuna o da altre realtà antagoniste, nonostante anni di violenze documentate. Eppure, oggi si chiude una sede politica per “i contenuti espressi al suo interno”. Questa operazione, aggiungono, non nasce da un’attività violenta, ma da un problema ideologico: “È la prima volta in Italia che una sede regolarmente affittata viene sequestrata non per ciò che accade al suo interno, ma per ciò che si pensa ed esprime”, affermano nel comunicato. Un messaggio chiaro e che si collega a un trend già osservato nei mesi scorsi: dalle condanne per la difesa del Circolo Futurista di Roma, all’ondata di DASPO per Acca Larenzia, fino al caso torinese, l’identità è diventata materia d’indagine.
Dopo Torino cosa aspettarci?
Il comunicato conferma ciò che già era emerso nelle prime analisi: non siamo di fronte a un’indagine per fatti criminosi, ma a un provvedimento che colpisce un’identità e uno stile politico. In questo scenario, il caso di Avanguardia Torino diventa un simbolo di una nuova fase repressiva, in cui non si punisce più chi agisce fuori dalla legge, ma chi agisce fuori dal pensiero unico. Del resto, le reazioni di questi giorni parlano da sole. Quando la repressione colpisce i militanti identitari, nessuno dei paladini del “pluralismo” si fa sentire. Quegli stessi ambienti che, a ogni occasione, recitano la famosa poesia di Martin Niemöller (falsamente attribuita a Brecht) – quella che dice “prima vennero a prendere gli zingari, poi i comunisti, poi gli omosessuali, e quando vennero per me non c’era più nessuno a difendermi” – oggi stanno zitti. O peggio, applaudono. Perché la verità è che questa retorica non vale per tutti. Vale solo per alcuni. Se la repressione tocca la sinistra antagonista, scatta l’indignazione e la difesa ad oltranza. Se tocca chi difende i confini, la tradizione o la memoria identitaria, allora va bene così. Anzi, per qualcuno è un atto dovuto. Ma se oggi si sequestra una sede politica per un’idea, la domanda resta aperta: dopo Torino, chi sarà il prossimo?
Sergio Filacchioni