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Warfare: la guerra come corpo collettivo, il cinema come strumento chirurgico

by Sergio Filacchioni
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Roma, 1 sett – Gli americani hanno un pregio che non smettiamo mai di invidiare: sanno narrare. Anche gli eventi apparentemente marginali vengono trasformati in opere robuste, coerenti, capaci di raggiungere lo spettatore e fissarsi nell’immaginario collettivo. Warfare – Tempo di guerra, diretto da Alex Garland e dall’ex Navy SEAL Ray Mendoza, è l’ennesima dimostrazione di questa abilità.

Un’esperienza immersiva, non un film di guerra

Il film non è il classico racconto bellico carico di pathos e retorica, anzi. La sequenza iniziale non è una citazione di Platone o Emerson, ma una carica di testosterone maschile che è già diventato meme: Call on Me di Eric Prydz in un remix dance con un video di aerobica a forte carica sessuale. Il gruppo di “frogmen” che guarda il video dallo schermo di un pc è un unico corpo eccitato dal sesso e dalla guerra, pronto all’azione. Warfare quindi più che il film a cui siamo abituati è un’esperienza immersiva, quasi un documentario in presa diretta: un’ora e mezza dentro un’operazione militare scandita da lunghe attese, nervi tesi, routine ripetitive, fino a esplodere in improvvisi rovesci di violenza cruda, senza filtri. Nessuna estetica da “colonne sonore epiche”, anzi è il comparto sonoro realistico a fare del film un’esperienza cruda, nessuna sequenza patriottica: domina l’iper-realismo, ottenuto anche grazie a un addestramento reale degli attori e alla consulenza diretta di veterani. In questo la pellicola di Garland e Mendoza entra a pieno titolo in una tradizione cinematografica che fa da strumento chirurgico alle ferite della guerra, seguendo la scia di film come Jarhead (2005) diretto da Sam Mendes, The Hurt Locker (2008) diretto da Kathryn Bigelow e il capolavoro American Sniper (2014) di Clint Eastwood.

Deindividuazione: il singolo che si sublima nel gruppo

In Warfare non c’è spazio per l’eroe solitario. I protagonisti appaiono come parti di un unico organismo, ingranaggi intercambiabili di una macchina militare dove conta solo resistere, proteggere i commilitoni, non lasciare nulla in mano all’avversario. Quest’ultimo resta invisibile ai margini del “perimetro” provvisorio tracciato dall’occupazione di una semplice casa, ridotto a un muro di piombo distante e minaccioso, tipico delle guerre urbane contemporanee. Il vero tema del film quindi sembra essere la deindividuazione, quel processo psicologico in cui alcuni fattori, riducendo l’identificabilità sociale e l’autoconsapevolezza dell’individuo all’interno di un gruppo, rendono possibili comportamenti che normalmente sarebbero inibiti. E così attori noti come Will Poulter, Cosmo Jarvis, Joseph Quinn e D’Pharaoh Woon-A-Tai vengono inghiottiti in una coralità che annulla ogni identità attoriale. Nessuno emerge, tutti si confondono nel buio claustrofobico della casa assediata. Nelle sequenze finali, i soldati stessi sembrano dissolversi, svuotati di sé e ridotti a pura esistenza meccanica. Garland mostra come la guerra corrode (o sublima) l’individualità fino a lasciar spazio soltanto a un corpo collettivo in lotta.

La lezione mancata del cinema italiano

In effetti il film ha il pregio di non impartire morali o lanciarsi su analisi geopolitiche, così come questo articolo non discute della legittimità della guerra in Iraq. È in questo suo apparente disincanto che Warfare si rivela un manuale visivo della guerra contemporanea, un’opera che rompe con l’estetica novecentesca dei grandi scontri campali a cui il cinema – specialmente Hollywoodiano – ci ha abituato. Ed è proprio qui che nasce una domanda che ci investe: perché il cinema italiano non riesce a fare altrettanto? Sarebbe così assurdo avere un film che racconti con crudezza e autenticità la battaglia dei ponti di Nassiriya, quando i nostri militari furono protagonisti di uno dei momenti più duri della guerra in Iraq? Cos’è che blocca la nostra cinematografia: il tabù culturale verso l’esperienza militare, la sudditanza ideologica a un certo pacifismo di maniera, o semplicemente la mancanza di coraggio industriale? Eppure servirebbe far capire agli italiani cos’è stata la guerra di appena vent’anni fa, abituati come sono a percepirla lontana nello spazio e nel tempo, e sempre attraverso lenti anacronistiche, o al massimo videoludiche: ha fatto più una serie di videogame come Call of Duty che tutto il nostro cinema “impegnato”.

A24 come pietra di paragone

Warfare dimostra che raccontare la guerra senza retorica è possibile. Serve la volontà di farlo, e in questo la casa di produzione A24 è diventata un apripista. Non a caso persino Christopher Nolan ne ha elogiato il lavoro, riconoscendo come all’inizio della sua carriera “non ci fosse un distributore così efficace, capace di proporre con regolarità film incredibili e impegnativi”. Una realtà indipendente statunitense riesce dunque a imporsi come punto di riferimento mondiale, mentre il cinema italiano continua a rimanere fermo, incapace di dare voce a chi la guerra l’ha vissuta davvero e prigioniero di tabù culturali e ideologici che ne paralizzano lo slancio.

Sergio Filacchioni

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