Roma, 8 giu – L’Urbe è diventata il laboratorio di una distopia: il “Modello Giubileo”. Un modello di governance commissariale e autoritaria che agisce nel nome di un grande evento per portare avanti un’agenda di trasformazione urbana calata dall’alto. Ecco come la Città Eterna viene resa una cartolina senz’anima, un nonluogo dell’era globale.
L’Urbe diventa un nonluogo
L’ultima vittima di questa mutazione fisiognomica: Piazza Augusto Imperatore, restituita al pubblico dopo cinque anni di lavori. Ma potremmo parlare anche di Piazza dei Cinquecento, Via Ottaviano e Piazza Pia. Il leitmotiv è sempre lo stesso: “Abbiamo liberato Roma dal traffico per restituirla ai pedoni”. O almeno, questo è ciò che raccontano i comunicati stampa infiocchettati del Comune di Roma, rilanciati a dovere dalle pagine Facebook che da anni esaltano qualsiasi misura anti-degrado. Ma la realtà è ben diversa. Quello che ci troviamo davanti non è uno spazio riscattato davvero alla cittadinanza: è solo una passerella travestita da spazio pubblico, un deserto partorito dall’immaginario del funzionalismo più arido. Qualcuno esulta: “niente più auto!”. Ma per cosa? Per un non-luogo, per un vuoto plastificato, per una scenografia turistica sganciata da ogni esperienza vissuta.
Che cos’è un nonluogo?
Come scriveva Marc Augé nel 1994, i nonluoghi (non-lieux) sono quegli spazi dove “non si costruisce né identità, né relazioni, né storia”. Un concetto che ha avuto indubbiamente successo perché è facile riconoscerli. I “non-luoghi” sono spazi funzionali, anonimi, senza connotazioni specifiche e spesso destinati a essere attraversati rapidamente. Sono gli aeroporti, i centri commerciali, gli hotel delle catene globali. Spazi senza radici, senza anima, senza popolo. Anche Roma – colpevolmente in ritardo sulla tabella di marcia secondo i blogger attenti al degrado – si avvia a diventare un nonluogo. O almeno il suo centro storico, già colpito da anni dall’avanzata dell’omologazione consumistica e della cosiddetta gentrificazione. La sua forma non parla più al romano, ma solo all’algoritmo: levigata, neutra, instagrammabile. Una sorta di spazio neutro dove l’uomo è ridotto a utente, non più cittadino: siamo a Roma o a un gate di Heathrow? La differenza si dissolve nella neutralità estetica.
Una città senza forma, una civiltà che rinuncia al Bello
Qui si potrebbe aprire una riflessione più profonda partendo dalla domanda: perché la società moderna ha abdicato all’idea stessa di Bellezza? Dove c’era proporzione, significato, simbolo, oggi abbiamo solo una diffusa neutralità visiva. È l’abbandono del concetto propriamente europeo di Gestalt: quella forma unitaria che in una piazza dava senso all’insieme, legava le parti a un tutto, e restituiva allo spazio urbano la sua funzione rituale, civica, collettiva. La nuova piazza non ha forma perché è solo superficie. Non esiste più uno spazio narrativo, simbolico, identitario. Solo una spianata bianca pensata per essere fotografata e poi dimenticata. Roma, archetipo dell’estetica europea e occidentale, si è ridotta a contenitore di superfici neutre, progettate senza amore, senza visione, senza destino.
Il demone del Fascismo
Ed ecco la provocazione: chi oggi demonizza il Fascismo a ogni occasione, dovrebbe almeno ammettere che aveva ancora il coraggio di costruire luoghi e progettare con una visione di grandezza. Chi oggi si straccia le vesti per ogni lapide o bassorilievo dovrebbe almeno riconoscere che allora si costruiva per durare. Oggi invece si costruisce per non disturbare. Pensiamo – solo per fare un esempio – a Via dei Fori Imperiali: un asse urbanistico e simbolico che unisce il Colosseo a Piazza Venezia. Monumentale, certo. Ma anche vivo, narrativo, percepibile come unità: una gestalt urbana. Uno spazio dotato di forma, funzione e significato. Un luogo. Dove si cammina, si marcia, si contempla. Si vive nella storia della città attraverso la sua singolare stratificazione. Oggi invece si producono spazi senz’anima, frutto di un’ideologia che ha paura di dire qualcosa, di osare una forma, di affermare un senso. Un’ideologia che ha il terrore di “offendere” e finisce per non comunicare assolutamente nulla.
Uno spazio che non aggrega non è un luogo
E veniamo alla questione più concreta: perché questa piazza non serve a niente? Perché non è stata pensata per far vivere. Per far incontrare. Per far giocare i bambini, riposare gli anziani, chiacchierare i ragazzi. È stata concepita come un corridoio, non come un’agorà. E allora lanciamo una provocazione: non sarebbe stato meglio costruire un campo da calcio? Almeno avrebbe generato relazioni. Almeno avrebbe restituito energia, sudore, passione. Vita. Attenzione: qui non si tratta di romanticismo nostalgico da “ragazzi del muretto”: anche il Fascismo è intervenuto sul tessuto urbano della capitale, ma con un approccio significativo e significante. Basta ammirare i palazzi che su Piazza Augusto Imperatore si affacciano. Si tratta quindi di restituire l’anima ai luoghi, significa farli parlare di nuovo, con i corpi, i simboli, le emozioni. Una piazza che non accoglie, che non ospita, che non aggrega, che rinuncia perfino a fare ombra è una piazza fallita. È uno spazio morto, anche se lucidato a specchio.
Il Giubileo come dispositivo ideologico
Ovviamente criticare il “modello Giubileo” non vuol dire criticare il Giubileo come evento religioso, e non vuol dire nemmeno criticare per forza le riqualificazioni. Criticare il Modello Giubileo significa attaccare una strategia di potere commissariale che, come dicevamo all’inizio, col pretesto dell’evento impone dall’alto una trasformazione urbana autoritaria. Parliamo di pieni poteri al sindaco-commissario Gualtieri, d’investimenti solo nel centro turistico, di periferie abbandonate e inquinate, di servizi al collasso, di affitti alle stelle e repressione del dissenso con zone rosse e militarizzazione. Criticare il modello Giubileo non è essere reazionari. È rifiutare una Roma svuotata di significato, la città vetrina rimodellata per lo status quo globale e per il profitto di pochi.
Il grande avvenimento
Qualcuno dirà che stanno snaturando Roma, svuotandola delle sue funzioni vitali per offrirla in pasto al turismo di massa e al capitalismo immateriale dell’immagine. Gli Intolleranza – storico gruppo della scena musicale non conforme – nel 1995 scrissero “Il grande avvenimento”, una canzone dal testo profetico: “Vogliono rifare il trucco alla nostra città / Organizzeranno il grande avvenimento / Il piano è stabilito, tutto sembrerà bello / E nasconderà il marcio in un momento!”. Non può non tornare alla mente la “Roma de travertino, rifatta de cartone” di Trilussa. E lui ce l’aveva con i ritocchi del Fascismo per non far sfigurare la capitale – all’epoca un cantiere aperto per davvero – durante la visita del Führer. Chissà cosa avrebbe pensato dei reel di Gualtieri. In ogni caso, in una Nazione in cui esistono organizzazioni che fanno battaglie contro le grandi opere è quantomeno singolare constatare il silenzio quando non viene fatto… niente. Quando l’identità viene spianata sotto il rullo compressore della globalizzazione si chiama progresso; quando si tenta di costruire centrali nucleari, gasdotti e ponti si chiama “interesse dei padroni”. Davvero strano: “Che cosa resterà dopo la manifestazione? / I soliti maiali nati per mangiare / Tutto tornerà alla desolazione / Con gente stanca che non sa lottare!”.
Roma non deve piacere a tutti
Contro questa imposizione ideologica (prima che urbanistica) serve una risposta culturale, politica, esistenziale che non può fermarsi al semplice popolo del No. Serve rivendicare la città come luogo di identità attiva, non di consumo. Ma serve rivendicare anche una certo stile pionieristico che non si accontenta di quel che ha, solo perché ha paura di fare di peggio. La battaglia per i luoghi è una battaglia per il popolo che si inserisce a tutti gli effetti nella sfida di riconquista delle nostre città: il vuoto, a parere di chi scrive – è molto più spaventoso dell’immigrazione e del degrado. Perché una piazza, un viale, un quartiere non è mai stata “solo” architettura. È una firma. È l’atto di civiltà che si consegna ai posteri.
Sergio Filacchioni