Roma, 28 mag – Ultimamente si discute della possibilità di aprire le Forze Armate italiane anche agli immigrati non ancora cittadini. La notizia, lanciata lo scorso anno dal Fatto Quotidiano, parlava di un progetto allo studio negli ambienti della Difesa, con la benedizione (più o meno esplicita) del ministro Crosetto. La cosa ha ovviamente acceso i riflessi condizionati dei soliti ambienti: da un lato chi grida al razzismo appena si solleva un sopracciglio, dall’altro chi paventa un’invasione afroislamica in mimetica. E come spesso accade in Italia, la realtà viene lasciata fuori dalla porta. In questa riflessione, ovviamente, non vogliamo risparmiarci.
Gli immigrati nell’esercito dicono qualcosa su di noi
Partiamo da un dato di fatto: oggi la cittadinanza è un concetto svuotato, burocratizzato, ridotto a modulistica. Ius Soli e Ius Scholae hanno provato a renderlo ancora più funzionale a logiche progressiste. Però parliamoci chiaro: anche il diritto di sangue non è più sinonimo di sacrificio, dovere ed eroismo. Secondo un sondaggio riportato da Esquire, solo il 35% degli italiani sarebbe disposto a combattere per difendere il proprio Paese. Il resto? Indifferente, disilluso, disarmato dentro. Non c’è bisogno di esperti di geopolitica per capire cosa significa: non è l’esercito che manca, è l’Italia. O meglio: è quel sentimento comune, quell’istinto primordiale di appartenenza che trasforma un cittadino in un soldato, un massa in un popolo e una Nazione. E allora – prima di iniziare una riflessione sullo straniero – è utile prendere atto che il problema non è se un immigrato può indossare una divisa. Il problema è che sempre meno italiani vogliono farlo. Il problema sono delle forze armate da riconvertire, da carrierificio ad effettivo sistema operativo. E su questo dovremmo interrogarci. Dentro casa nostra. Se qualcuno crede di poter “importare” patrioti, sbaglia di grosso.
Che tipo di Nazione siamo diventati
La questione, allora, non è se i soldati immigrati siano “buoni” o “cattivi”. È capire che tipo di Nazione siamo diventati se ci troviamo a cercare soldati fuori dai nostri confini. È un segnale d’allarme, non una soluzione (che possa essere una possibilità lo vedremo dopo). Se i giovani italiani non si arruolano più, forse è perché abbiamo smantellato ogni idea di appartenenza, di dovere, di verticalità. Abbiamo educato generazioni al disimpegno, all’abitudine della debolezza, alla decostruzione critica della propria storia. Siamo vissuti nel benessere e nel comfort garantiti dalle bombe atomiche di altri, credendo che non ci fosse più nessuno che potesse offenderci. Ora ne paghiamo il prezzo. Ma attenzione: come spesso accade non è solo una questione “italiana”. Francia, Spagna, Germania sono tutte alle prese con lo stesso problema. Una questione europea che certo non fa onore a nessuno, ma che in Italia tende ad assumere i tratti vittimisti del paese “codardo”, il che rende tutto ancora più amaro: perché qui, nella patria di Giovanni delle Bande Nere e Garibaldi, non sono gli immigrati a far paura. È l’idea stessa di nazione che da anni si cerca di ridicolizzare, svuotare, marginalizzare mettere tra parentesi. Una Nazione forte della sua storia e del suo ruolo – al contrario – piega ogni contingenza ad essere uno strumento, lasciando poco spazio al vittimismo e aprendo alle possibilità che la storia gli offre. E qui veniamo al dunque del discorso “stranieri” nell’Esercito.
Una Legione straniera non è blasfema
In questi casi, il paragone con la Francia viene naturale: la Légion étrangère esiste dal 1831 ed è una realtà funzionante, disciplinata, persino mitica. Ma non è l’Esercito francese: è un corpo separato, nato per combattere lontano dalla madrepatria. Insomma è uno strumento in mano alla Francia per proiettarsi outremer. Una “Legione Straniera Italiana”, se mai nascesse, dovrebbe essere pensata come struttura a parte, con un senso chiaro e una missione definita. Che non può essere quella di regalare cittadinanze. Non si può semplicemente “mescolare” immigrati nei reparti esistenti – o creare appunto reparti distinti e separati – senza prima riflettere sul piano umano, culturale ma soprattutto operativo. Insomma l’idea di una Legione Straniera italiana non è blasfema. Lo facevano i Romani, lo fa la Francia, ci sta pensando la Germania. Ma se dobbiamo farla, facciamola bene. Serve un corpo separato, con una sua identità, con criteri rigidissimi, con un controllo politico chiaro. E soprattutto: non dev’essere un modo per far numero, ma per dare forma ad una nuova proiezione italiana fuori dai suoi confini. Ma anche, se volessimo spingerci oltre, per dare forma a una nuova italianità possibile, fondata sul merito, sul sacrificio, sulla volontà di appartenere nel corpo, non sul “diritto” di ottenere qualcosa in cambio. Sicuramente è un inizio più solido rispetto a mille mila firme raccolte per lo ius soli, più autentico di tanti talk-show sulla “seconda generazione”. In fondo siamo sempre una Nazione con una storia imperiale, e siamo la Patria che ha elargito la prima medaglia d’oro al valor militare ad un soldato coloniale. Prima di arricciare il naso, pensiamoci meglio.
Meglio extracomunitari che europei?
A questo punto però sorge un altra domanda: perché gli immigrati extracomunitari sì, e magari un giovane europeo no? Ad oggi infatti cittadini di altri paesi europei (o dell’UE) non possono arruolarsi direttamente nell’Esercito Italiano. In Germania il dibattito è già maturo. Il Bundeswehr, l’esercito tedesco, sta seriamente valutando l’ipotesi di arruolare cittadini stranieri. Non solo per colmare i vuoti nei ranghi, ma per rispondere a un’evidente crisi d’identità militare della società tedesca post-1945. È un’opportunità o un’eresia?, si chiede Difesa Online. La risposta, ovviamente, dipende dalla visione che si ha dello Stato. Se il soldato è un “dipendente pubblico armato”, allora va bene anche l’arruolamento globale. Ma se è, come dovrebbe essere, l’incarnazione della Nazione in armi, allora attenzione: la coesione culturale viene prima della funzionalità logistica. E c’è di più. I tedeschi stanno ragionando su criteri rigidi: cittadinanza UE, residenza pluriennale, integrazione linguistica e culturale accertata. No alle scorciatoie etniche, sì alla selezione identitaria. Se davvero il criterio è la lealtà, l’affinità culturale e il desiderio di servire, allora forse avrebbe più senso guardare a un’alleanza inter-europea prima ancora che a un reclutamento indiscriminato su base mondiale. Anche in divisa, l’Europa o è una civiltà, o non è niente.
Ricostruire il fuoco sacro della nostra identità
La reazione isterica di certi ambienti progressisti alla proposta la dice lunga su quanto questa non susciti molto entusiasmo, nemmeno tra gli immigrazionisti più incalliti. Per loro, gli immigrati vanno bene solo se lavorano nei campi o se portano il sushi a casa con la bicicletta. L’idea che possano vestire una divisa, obbedire, essere rispettati, li manda letteralmente fuori di testa. Perché infrange il dogma del “buon selvaggio” subalterno, del servo fedele pronto a votare Partito Democratico, del precario modello con cui riempire il tessuto produttivo. Distrugge il modello parassitario che la sinistra ha costruito sull’immigrazione. Il che dovrebbe far riflettere noi che non abbiamo mai avuto paura di riconoscere il valore. Essere italiano – come ci insegna la nostra tradizione politica – non è solo una questione di DNA, è un destino. Chi lo abbraccia, chi ci scommette sopra la propria vita, merita di essere chiamato italiano. Chi presta servizio per anni in uniforme e in condizioni di disciplina e rischio, può avere diritto a vedere accelerato il proprio percorso verso la cittadinanza? Sì, ma questo succede già, ed è persino previsto dalla legge italiana (n. 91/1992). Il punto quindi non è aprire o chiudere, ma capire cosa vogliamo essere. Un popolo si riconosce da chi lo difende. Se non siamo più in grado di produrre giovani disposti a servire, la soluzione non è importare carne da cannone. È ricostruire il fuoco sacro della nostra identità: i patrioti non si costruiscono con la leva, ma si creano nelle scuole con passione e trasmissione dei grandi esempi della nostra storia, attraverso la comunità e lo spirito di corpo. E se, nel frattempo, qualcuno da fuori vuole combattere con noi, prima ancora che per sé, allora sì: possiamo parlarne.
Sergio Filacchioni