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Mai scusarsi della grandezza: il 9 maggio l’Italia tornava impero

by Sergio Filacchioni
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Italia

Roma, 9 mag – C’è una data che, più di molte altre, simboleggia l’irruzione dell’Italia nel novero delle grandi potenze della Storia. Il 9 maggio 1936 – giorno della proclamazione dell’Impero dopo la vittoria in Etiopia – non fu soltanto un evento politico o militare: fu l’epifania di un destino. Fu il compimento di una missione secolare. E soprattutto, fu un atto di giustizia storica contro i secoli di umiliazione, divisione e irrilevanza a cui la penisola era stata condannata da interessi stranieri e da élite servili.

Italia, la civiltà del mare

Mentre la cultura dominante – quella stessa che ha giustificato ogni invasione straniera e ogni dittatura finanziaria – si affretta ancora oggi a ridurre quella pagina a una “vergogna coloniale”, noi diciamo con chiarezza: mai scusarsi della grandezza. L’Impero italiano in Africa non fu un sopruso, ma un’opera di civiltà. Non fu una parentesi di brutalità, ma un’estensione naturale della romanità, una manifestazione concreta della superiorità culturale, tecnica e morale che l’Italia aveva il dovere di portare nel mondo. Le colonie italiane – Libia, Somalia, Eritrea, Etiopia – furono il laboratorio di una presenza mediterranea rinnovata, che univa in sé il genio organizzativo di Roma e l’impulso modernizzatore del Ventennio. Come ha ben evidenziato Gagliardi in uno studio accurato (Storicamente, 2008), l’Italia fascista cercò in Africa non soltanto uno sbocco demografico ed economico, ma la realizzazione concreta di un ordine nuovo fondato sul lavoro, sull’igiene, sull’educazione, sulla bellezza architettonica. Non si trattò di un colonialismo predatorio, bensì di una visione imperiale integrale. La costruzione di infrastrutture – strade, ferrovie, acquedotti – fu accompagnata da progetti sanitari, scolastici e agricoli che cambiarono profondamente il volto di regioni fino ad allora abbandonate a sé stesse o ai residui di feudalesimo tribale. La “conquista” portò con sé la legge, l’ordine, l’alfabeto, il lavoro. Quale altro Paese può vantare, nelle sue colonie, l’edificazione di intere città moderne come Asmara (dall’8 luglio 2017 la città è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO per la sua architettura razionalista) o Mogadiscio?

Eurafrica: visione organica di un destino condiviso tra Italia, Europa e Africa

Nel cuore della visione imperiale italiana del Ventennio si radicava un concetto che ancora oggi torna a imporsi con forza per la sua lungimiranza: l’Eurafrica, termine coniato dall’italiano Paolo d’Agostino Orsini di Camerota nel 1930, professore di geografia coloniale a Roma e collaboratore della rivista “Geopolitica”, la prima rivista in Italia dedicata specificatamente alla scienza geopolitica. L’Orsini affermava non solo che Africa ed Europa erano continenti geograficamente e fisicamente affini, ma che la nuova Europa Fascista avrebbe potuto eliminare la schiavitù economica in cui le potenze plutocratiche (Gran Bretagna e Francia, in particolare) avevano costretto i popoli africani. Insomma, il Mediterraneo veniva considerato dall’ Orsini come elemento di congiunzione tra due metà destinate a ritrovarsi e a manifestare così tutte le proprie potenzialità geopolitiche, geoeconomiche e geostrategiche. Non la culla di uno strenuo isolazionismo. Eurafrica quindi non fu un mero slogan geopolitico – come spiega un articolo di Alberto Alpozzi su Italia Coloniale – ma un’idea organica di continuità tra Europa e Africa, un’unione di destino costruita sulla complementarità e sulla gerarchia ordinatrice: “Eurafrica significa l’Africa per l’Europa e l’Europa per l’Africa”. Per l’Italia fascista quindi l’Eurafrica non era solo uno spazio economico, ma una missione storica: portare ordine e forma dove c’era frammentazione, e ricevere in cambio risorse vitali per il completamento del progetto d’integrazione europeo. In questa visione, l’Italia non era semplice intermediaria, ma asse centrale, civiltà mediterranea per eccellenza, unica nazione europea in grado di connettere Nord e Sud in modo armonico e costruttivo. L’Impero d’Etiopia fu il primo passo simbolico verso quella unità geopolitica reale che il mondo postbellico ha spezzato, ma che oggi – nella crisi del modello euro-atlantico – torna a profilarsi come necessità storica.

Italiani brava gente? La grandezza non chiede il permesso

Attenzione, questo articolo non vuole affermare il retorico motto “italiani brava gente”. Grande popolo, sì. Grande impresa, sicuramente. Ma spesso la grandezza non ha niente a che vedere con i buoni sentimenti, con i diritti umani o la morale buonista. Per comprendere il 9 maggio 1936 e l’impresa coloniale italiana, che non fu certo una scampagnata a caso ma guerra a tutti gli effetti – africana e internazionale – bisogna prima capire cosa venne prima. Le delusioni della Prima guerra mondiale, la “vittoria mutilata”, l’emarginazione dell’Italia nei consessi internazionali, l’onta subita a Versailles. La proclamazione dell’Impero fu il riscatto di una nazione intera, finalmente padrona del proprio destino. Non era solo Mussolini a parlare quel giorno: erano le voci di Roma antica, di Dante, di Mazzini, di D’Annunzio. Tutti coloro che avevano sognato una nazione forte, unita e rispettata. Ma proprio per questo, chi ambisce alla grandezza non può farsi ingabbiare dalla morale del tempo, spesso costruita per proteggere lo status quo e impedire l’irruzione del nuovo. Ogni vero impero, ogni civiltà destinata a durare, ha dovuto rompere con la “morale del bene” imposta dai vincitori di ieri o dai custodi di un ordine decadente. Come ha insegnato Nietzsche, le morali sono costruzioni storiche, strumenti del potere travestiti da verità universali. Roma non chiese il permesso agli etruschi. La rivoluzione Fascista non chiese il permesso alle potenze borghesi. La civiltà non si diffonde col consenso, ma con la forza dell’ordine, della visione e della volontà. Non si tratta di negare il bene: si tratta di elevarlo, trasformarlo, rifondarlo in funzione di uno scopo superiore che ci sovrasta, ci precede e ci supera. Come scritto in un recente articolo, qui sul Primato Nazionale, “anche il tragico può avere un senso“.

Riconnettersi con la romanità

L’Italia non è mai stata semplicemente una nazione fra le altre. Essa incarna una funzione metastorica, un principio ordinatore che attraversa le epoche e riaffiora nei momenti cruciali della civiltà europea. Roma fu molto più di un impero politico: fu la forma visibile di un’idea eterna di ordine, bellezza e giustizia. Ogni volta che l’Italia ha saputo riconnettersi a quel nucleo originario – che sia nel Rinascimento, nel Risorgimento o nel Ventennio – ha riacceso la fiamma della sua missione universale. Il 9 maggio 1936 non fu solo la proclamazione di un dominio africano, ma il tentativo di riallineare la storia al suo centro naturale: l’Italia come cuore del Mediterraneo, ponte tra l’Europa e l’Oriente, custode e forgiatrice di civiltà. Oggi, in un mondo multicaotico in pieno riassetto, l’Italia ha l’occasione – e il dovere – di riscoprire quella vocazione imperiale in forma nuova, concreta e sovrana. La sua posizione geografica, il suo capitale culturale, la sua capacità industriale e logistica la rendono naturalmente centrale nel Mediterraneo allargato, dall’Africa settentrionale al Levante. Un’Italia che torna potenza può farlo guidando infrastrutture energetiche tra Sud Europa e Maghreb, aprendo rotte commerciali autonome, rilanciando un modello europeo alternativo al nichilismo occidentale. Non si tratta di nostalgia, ma di visione strategica. La politica estera deve tornare ad essere proiezione del nostro essere più profondo, non delega a potenze altrui. In un’epoca dominata da un nichilismo globalista che svuota le identità e dissolve le radici, ricordare il 9 maggio non è solo un dovere storico: è un atto di costruzione spirituale. Perché la grandezza italiana non è un’eccezione data per sempre: è una postura che matura dal lavoro e dalla congiuntura delle nostre ossa. Smettere di chiedere scusa. Riabbracciare la potenza.

Sergio Filacchioni

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