Roma, 20 ott – C’è un nome che risveglia la memoria profonda del continente, un nome che sembra custodire l’eco di tutte le origini: Thulé. Nelle pagine di Jean Mabire, “Il sole ritrovato degli iperborei”, questo non è un luogo perduto o una leggenda marinaresca. È un principio, un asse del mondo. Non tanto una direzione geografica, ma una postura spirituale. Da quel Nord invisibile, scrive Mabire, viene “tutta la luce”, e su quel polo riposa l’equilibrio dell’universo.
Il viaggio verso la terra di Thule
Il viaggio verso Thulé comincia nella bruma, dove il cielo e il mare si confondono. È la soglia iniziatica di chi cerca, più che un’isola, una verità. L’eroe non sbarca in un porto, ma nella consapevolezza di un’origine. In quell’istante, la geografia si rovescia: il margine diventa centro, l’estremo Nord si trasforma nella sommità di ogni gerarchia. Jean Mabire non scrive da archeologo né da mistico, ma da europeo consapevole che il mito è un linguaggio operativo. Infatti, dietro la leggenda di Pitea di Massalia — l’esploratore greco che per primo toccò l’estremo settentrione — c’è la volontà operante di andare oltre i finti opposti: ricongiungere il Mediterraneo al suo principio boreale. Quella spedizione, avvolta dalle nebbie e dai ghiacci, non è solo una rotta marittima: è il simbolo di una vera e propria riconquista del principio solare.
La luce del Nord e il sole del Sud
In ogni cultura indoeuropea, l’isola polare appare come il centro perduto del mondo. In Thulé, Mabire ne fa la chiave di una possibile ri-unificazione europea sotto il segno di in origine: un ritorno al punto in cui spirito, ordine e bellezza coincidono. Non è nostalgia, ma restituzione di senso. Mabire non oppone Nord e Sud (sarebbe un meccanismo troppo semplice) ma li vede come due volti della stessa avventura. Pitea e i suoi compagni, scrive, fecero ciò che solo gli Europei sanno fare: trasformare l’esplorazione in conoscenza di sé. “Doriens et marins massaliotes devenaient alors les descendants directs des Hyperboréens”: i marinai greci e gli opliti di Sparta sono continuatori di una stessa stirpe solare. La Grecia dorica fu la traduzione estetica del mito iperboreo. Gli dei scolpiti nella pietra avevano i tratti dei conquistatori del Nord; la statua greca, scrive Mabire, “exalte la beauté nordique”. L’Ellade non inventò la bellezza, la riconobbe. La plasmò in forma. E quando il ciclo giunse a Roma, quella luce fredda divenne legge, architettura, imperium. Il mondo latino non è il contrario dell’iperboreo: è la sua realizzazione politica, la forma compiuta dell’ordine europeo. Nell’universo mabiriano, quindi, il vero asse del continente non è quello Est-Ovest dell’espansione moderna, ma quello Nord-Sud, che unisce Thulé e Roma, lo spirito e la forma. L’avversario è l’Oriente: il deserto, l’Asia, l’indistinto.
La geografia della tradizione
Nelle antiche leggende celtiche, le isole del Nord — Tir nan-Og, la “terra dei giovani”, o Ruhno nel Baltico — erano rifugi dei druidi e dei saggi, luoghi di resistenza contro le invasioni e di ritorno alla purezza. Mabire ne fa la metafora dell’uomo iniziato: “un’isola di scienza e di saggezza in mezzo al flusso degli ignoranti”. La vera Thulé, dunque, non è mai scomparsa: si nasconde nel cuore di chi custodisce una forma, nel silenzio disciplinato di chi resiste al disordine moderno. Non stupisce che in Thulé, la figura di Julius Evola venga chiamato a ricoprire un posto centrale. Mabire lo chiama “le maudit”, ma riconosce in lui il geografo della Tradizione. Rivolta contro il mondo moderno diventa una bussola per ritrovare la rotta del Nord: un codice spirituale più che un testo politico. Evola, come Bailly prima di lui, riconosceva nella “civiltà olimpica” un’origine boreale, un centro perduto da cui si irradiarono le razze solari e le culture eroiche. Mabire non copia Evola, ma lo completa: il filosofo romano dà la verticale metafisica, il bretone la linea storica e continentale. Insieme delineano una tradizione europea che è allo stesso tempo asse del mondo e percorso di ritorno.
Thulé e Atlantide: il mistero e la disciplina
Non a caso nel suo lavoro Mabire accosta Thulé e Atlantide come due volti di uno stesso archetipo. L’isola perduta, scrive, diventa “introuvable dès qu’on la cherche”: chi la cerca soltanto con la ragione non la troverà mai. Perché la conoscenza non è solo accumulo di dati, nozioni e fatti ma un percorso iniziatico nel mistero. Il mito di Thulé è così anche e soprattutto un esercizio spirituale: ricordare che la verità non è mai nel clamore, ma nel silenzio di chi sa misurarsi con il non-detto, con la “materia oscura” che avvolge il 90% della nostra percezione. Ma parallelamente a questa via “interna”, dallo stesso mito si irradia anche un’etica operativa, pragmatica e civile. È l’etica del dominio di sé, della fedeltà e dell’onore che hanno contraddistinto tutte le saghe della “diaspora iperborea”: “Un atteggiamento di perpetua sfida, dove il gusto del rischio si esaltava fino a superare tutti i limiti del possibile […] Il bene si identifica con l’azione di splendore, che assume un valore in se stesso. Ciò che conta non è il piacere, ma il dovere. Non la sottomissione a un altro se stesso, ma la libertà di imporsi in una condotta conforme all’imprescindibile onore alla propria stirpe e al proprio clan”.
Ritrovare la direzione smarrita
L’Europa moderna ha smarrito la propria direzione perché ha smarrito il proprio Nord. Ha sostituito l’asse spirituale con la linea orizzontale del mercato, la Tradizione con la morale dei diritti, la forma con la quantità. In questo senso ritrovare Thulé significa raddrizzare la civiltà sulla propria verticale. Non per tornare indietro, ma per arrivare in alto. Thulé, scrive Mabire, è “le soleil d’ambre”: un sole che non brucia, ma illumina. Quella luce non viene dal passato, ma da un Nord interiore che attende di essere ritrovato. Con quest’opera Jean Mabire non offre una favola né un’erudizione: offre una bussola. Ci ricorda che la vera Europa è figlia del ghiaccio e della luce, educata dal mare e dal marmo, nata dal coraggio di chi ha osato guardare verso il Nord e dire: là è la mia origine. Nel tempo dell’indifferenza e della dissoluzione, Thulé resta una chiamata al risveglio: non un sogno di purezza, ma una disciplina di fedeltà. Essere europei, oggi, significa forse solo questo: sapere dov’è il Nord.
Vincenzo Monti