Roma, 9 giu – A Mosca, nella metropolitana, è tornato Stalin. Non si tratta di un vezzo estetico, né di una semplice commemorazione storica. È un gesto politico, carico di senso, parte integrante di una strategia rivolta verso l’Europa.
La nuova passione Russa per Stalin
A sessant’anni dalla rimozione, le autorità russe hanno reinstallato una statua del leader sovietico nel cuore pulsante della capitale. È un ritorno simbolico che non si può liquidare con un giudizio morale sul personaggio – sarebbe un errore tipicamente occidentale, quello di ridurre tutto a etica astratta – ma che va letto per ciò che realmente è: un’operazione di potere attraverso la memoria. Non occorrerebbe dirlo, ma lo diciamo: la figura di Stalin non è neutra. Rievocarla oggi, serve a costruire una continuità simbolica tra la Russia sovietica e quella attuale, proiettando un’immagine di forza, centralismo e controllo. È la rappresentazione plastica della burocrazia comunista, dell’occupazione sistemica e dell’ideologia amministrativa che per decenni ha dominato l’Europa orientale. Non il “male assoluto”, come piacerebbe a certe letture moralistiche, ma il simbolo freddo e concreto del comunismo realizzato, dell’apparato sovietico nella sua forma più dura e totalizzante.
108 monumenti eretti a Stalin
Con la guerra in Ucraina, questa operazione ha assunto un significato ancora più chiaro. I 108 monumenti a Stalin eretti sotto Putin, alcuni persino nei territori occupati come Melitopol, indicano che non siamo di fronte a una nostalgia. È un atto un’operazione culturale. Come abbiamo scritto in un altro articolo, il mito sovietico viene riattivato non per “ricordare”, ma per polarizzare. Non c’è ricerca storica: c’è costruzione simbolica. La Russia utilizza la memoria come uno strumento di legittimazione interna e di contrapposizione esterna. Ed è proprio qui che il messaggio si fa strategico. Nel rievocare Stalin, la Russia non mira solo a unificare se stessa: manda un segnale all’Europa. Dice: Noi siamo ciò che voi non siete più. In un’Europa post-nazionale, fragile e smemorata, il Cremlino esibisce la propria narrazione storica come un’arma di potenza. Chi ha un passato “forte”, può esercitare forza.
L’antagonismo di Stalin
Nel 2021, nella Strategia di Sicurezza Nazionale, la Russia ha messo nero su bianco il concetto: la “difesa della memoria storica” è parte integrante della sicurezza nazionale. E non è un caso che questa difesa si concentri proprio sulle figure più controverse, più divisive, più cariche di significato geopolitico. Stalin, tra tutte, è il punto massimo di frizione perché non è solo un leader autoritario, ma l’icona dell’occupazione ideologica dell’Est Europa. Riabilitarlo agli occhi del mondo non significa solo riscrivere il passato: significa reclamare un’identità alternativa all’occupazione dell’Europa. Il discorso è molto semplice: se domani gli Stati Uniti inaugurassero 108 statue ex-novo al Presidente Franklin D. Roosevelt, cosa starebbero comunicando al mondo? Di certo non di essere pronti all’isolazionismo. Dovremmo aspettarci l’inizio di una nuova assertività statunitense in Europa, o quantomeno un ritorno prepotente dell’ingerenza americana. Quindi chiediamoci: perché si sceglie Stalin e non Lenin? Perché non Dostoevskij?
L’errore dell’Occidente
L’Europa, dal canto suo, continua a vivere la memoria come un problema da espiare. La cancel culture qui è fin troppo evidente: colpisce monumenti, nomi, simboli ritenuti “inappropriati”. La storia diventa un fardello. Per Mosca, invece, la storia è un arsenale, soprattutto quando quello propriamente bellico langue. Ogni statua non è un atto di nostalgia, ma una dichiarazione di guerra culturale. Dove noi abbattiamo statue, loro operano scelte più oculate. Dove noi ci scusiamo, loro rivendicano. Ecco perché sarebbe semplicemente un errore rispondere con indignazione morale. Stalin, per Mosca, è un simbolo da utilizzare a discapito di tanti altri del suo patrimonio. La sua è una cancel culture meno vistosa ma più efficace. Perchè non usa poeti, musicisti o eroi medievali per segnare una distanza culturale, etica e morale con noi. Usa Stalin per dire al mondo: la Russia è la vera guardiana dell’ordine di Yalta.
La colonizzazione del dissenso
Non va sottovalutata l’efficacia che questa rievocazione staliniana può avere su una parte del dissenso destrorso e sinistrorso occidentale, post-ideologico e internettiano. Spesso privo di riferimenti solidi e tentato da ogni parvenza di opposizione all’ordine liberal-progressista. In certi ambienti, Stalin non viene più percepito come simbolo del comunismo occupante, ma come incarnazione dell’autorità, dell’ordine e della potenza statuale contro l’anarchia globalista. È il riflesso di una deriva ribellista che, pur di colpire l’Occidente decandente, flirta con ogni figura “forte” e apparentemente anti-atlantista, anche a costo di confondere i propri riferimenti. Così, la memoria del comunismo sovietico viene strumentalmente separata dalla sua natura ideologica e storica, trasformandosi in una maschera provocatoria, in un feticcio anti-sistema, in un meme. Ma è proprio questa confusione ad alimentare la strategia russa: confondere le categorie, sovvertire i simboli, ridurre la lotta culturale a una reazione istintiva. Se la destra europea cede a questa logica, rinuncia a se stessa. Perché Stalin non è mai stata l’alternativa: è l’altra faccia della stessa medaglia, quella che ha già negato l’Europa una volta e che oggi torna a farlo, sotto nuove forme.
Niente lacrime, solo lucida analisi
Il ritorno di Stalin è il ritorno dell’URSS come immaginario ideologico, non certo come sistema politico ed economico reale. E come abbiamo detto più volte serve a colonizzare il dissenso nell’Europa dei diritti liquidi e delle identità deboli. Riuscendoci, per giunta. Chi vuole comprendere le dinamiche del conflitto in corso non può ignorare questi segnali, e nemmeno relegarli a pratiche di buon patriottismo. I simboli parlano chiaro e questo in particolare si rivolge verso di noi. Non sono passato: sono futuro in costruzione. E oggi, il futuro che Mosca intende costruire è quello di una Russia “liberatrice”. Ovviamente non è con l’indignazione che si risponde al ritorno delle statue, né con le lacrime progressiste né con l’applauso reazionario. L’Occidente, svuotato, cerca ancora di cancellare il passato; Mosca, al contrario, lo arma. Ma chi vede in questo una scelta obbligata tra due mondi in conflitto non ha capito che entrambi si fondano sullo stesso presupposto: l’idea che l’uomo sia massa, e la storia dell’Europa una macchia da cancellare dalla faccia della terra.
Non abbiamo bisogno di liberatori
L’Europa vera – profonda, tragica, verticale – non ha bisogno né di liberatori né di padroni. Deve sottrarsi a questo terreno dialettico, ricostruire il proprio mito, la propria visione del mondo, il proprio destino. Imboccare un percorso di ritorno di sé stessa fuori dall’Occidente e la sua morte valoriale. Né sotto la falce e martello, né sotto la bandiera arcobaleno. Chi accetta uno di questi due poli ha già perso. Noi non dobbiamo condannare o assolvere Stalin, dobbiamo smettere di rinnegare la nostra memoria. Perché non siamo alla ricerca di liberatori, ma di rigeneratori. E sappiamo che per rinascere bisogna prima ricordare chi si è, cosa si è disposti a difendere, su cosa non si è disposti a transigere.
Sergio Filacchioni