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Ode alle chiacchiere da bar: il metodo Lebowski

by Roberto Johnny Bresso
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Lebowski

“A volte sei tu che mangi l’orso e a volte è l’orso che mangia te”.

Roma, 30 ago – Qualche settimana fa ho rivisto per l’ennesima volta (dalla prima occasione nella quale lo vidi al cinema nel 1998 ad oggi ne ho perso il conto, ma siamo sulla decina di visioni e se la batte con Trainspotting per il titolo di film che ho visto di più…) Il grande Lebowski (The Big Lebowski, in originale) di Joel & Ethan Coen e, benché conosca a memoria la trama ed ogni battuta, me lo sono goduto come se ne fossi vergine, ridendo ad ogni scena ed apprezzandone anche la malinconia che sottende tutta la pellicola.

Il grande Lebowski, un cult assoluto

Ed allora ho cercato di domandarmi per quale motivo praticamente solo questo film ci riesca. Un’opera che in fondo si basa su una trama molto esile e che di fatto nemmeno è così importante. Per chi non lo avesse mai visto, siamo a Los Angeles nel 1991 durante la prima Guerra del Golfo e la vicenda segue il personaggio di Jeffrey Lebowski (Jeff Bridges), assurdamente detto Drugo nella versione italiana, mentre rende molto meglio l’originale Dude (Tizio, come a indicare una persona qualunque), stralunato nullafacente che, per un fortuito scambio di persona, si trova invischiato suo malgrado in una surreale vicenda noir, dovendo svolgere quasi la funzione di investigatore privato, una sorta di Philip Marlowe in una versione lisergica de Il grande sonno, al quale tra l’altro la storia è ispirata. Intorno a lui ruotano tutta una serie di personaggi più o meno inerenti alla trama (tutti caratterizzati perfettamente, basti pensare al folle Jesus Quintana interpretato da John Turturro o al cowboy Lo Straniero di Sam Elliott, al quale è affidata la morale della storia), ma soprattutto agli amici storici Walter (John Goodman), un totale tuonato reduce del Vietnam ossessionato dalla ex moglie e a Donny (Steve Buscemi), un bizzarro tipo di poche parole con la passione per il bowling, bowling che viene usato, dall’inizio alla fine, come metafora della vita. Ne esce una sorta di western moderno e di poliziesco, che inizialmente lasciò sbigottiti spettatori e critici, salvo poi diventare col tempo uno dei film cult in assoluto della storia del cinema.

Un film che parla il linguaggio da bar

E finalmente ho trovato la ragione di tanto meritato successo e del perché lo adori in questo modo: l’ho realizzata sabato scorso mentre mi trovavo nella mia abituale e fidata osteria veronese, tra amici ed avventori abituali. E la ragione è assai semplice: il film parla il linguaggio di noi frequentatori di bar! Ci trovi lo stralunato pacifista, ci trovi il guerrafondaio, ci trovi il conservatore, ci trovi il rivoluzionario, ci trovi quello che parla di calcio, ci trovi quello che disserta di donne, ci trovi insomma ciò che vuoi e/o cerchi. Come noi, tra una birra (rigorosamente industriale) e un bicchiere di vino, passiamo con disinvoltura dal dissertare del film Johnny Guitar, al serial killer Donato Bilancia o all’ex calciatore gallese John Toshack, così ne Il grande Lebowski si parla tranquillamente di nichilismo e nazionalsocialismo (che “ha alla base l’ethos”, come sostiene Walter), di bowling e di Vietnam, si cazzeggia, ma si dà anche l’addio commosso ad un amico che non c’è più.

Un’illuminante insensatezza

Ecco che così, come accade esattamente in un bar, si trovano affianco l’uno all’altro personaggi tra i più diversi e, apparentemente, inconciliabili. E tutti immersi in qualche conversazione insensata. Ma poi non è forse vero che magari proprio le più assurde tra le conversazioni in realtà non si rivelino le più illuminanti? Ecco, ora mi è venuta voglia di rivedere un’altra volta il film… e poi me ne andrò nella mia osteria. “Questo non è il Vietnam, è il bowling: ci sono delle regole”.

Roberto Johnny Bresso

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