Roma, 8 giugno – Nel 1995 il film La Haine raccontava l’esplosione dell’odio nelle banlieue francesi. Un’epoca in cui, si diceva, la violenza urbana era figlia del disagio, della marginalizzazione, della mancanza di futuro. Oggi, trent’anni dopo, le periferie bruciano ancora. Ma l’odio ha lasciato spazio al divertimento.
La Haine, dov’è finito l’odio?
Le rivolte non sono più atti di disperazione, ma veri e propri rave del caos, happening distruttivi in cui orde di giovani mettono a ferro e fuoco interi quartieri per “festeggiare” una partita, un concerto o un Capodanno. Questa non è più rabbia sociale: è un gioco. E a perdere è sempre la stessa parte: le città europee. I media progressisti – eternamente prigionieri degli anni ’70 – continuano a ripetere la solita litania: “sono arrabbiati, sono esclusi, non hanno prospettive”. Ma ormai lo schema è chiaro: che si tratti di un morto durante un fermo di polizia o di una finale di Champions, il risultato è lo stesso. Razzi contro la polizia, auto in fiamme, negozi saccheggiati, violenze gratuite, donne molestate. Nessuna rivendicazione, nessun contenuto. Solo momentaneo saccheggio. E soprattutto: sorrisi, esaltazione, video sui social. Altro che odio. È una discoteca a cielo aperto, alimentata dal nichilismo e protetta da un sistema debole e complice.
Figli del vuoto, non del disagio
Questi giovani non sono né oppressi né ribelli. E l’estetica del “le monde est a nous” coltivata dal mondo antagonista rischia oggi di apparire più sistemica che conflittuale. Non sono i nuovi rivoluzionari ma i figli illegittimi del vuoto educativo, culturale e familiare dell’Occidente. Cresciuti in quartieri dove la legge dello Stato non entra più, dove la figura paterna è evaporata, dove lo Stato è visto solo come distributore di sussidi. Vengono da culture che predicano la forza, ma vivono in contesti dove il lassismo e il vittimismo li rendono intoccabili. Non temono le forze dell’ordine solo perché sanno che le leggi non si applicano mai davvero a loro. Non rispettano nulla, perché nessuno ha mai insegnato loro a farlo. Non hanno ideali, ma solo desideri: consumistici come quelli di tutti i loro coetanei occidentali. E li realizzano così: saccheggiando Foot Locker.
Quando l’anarchia è ben vista
Il più grottesco paradosso è che questi atti vengono regolarmente giustificati da intellettuali di sinistra, che si ostinano a vedere in ogni devastazione urbana una “reazione”. “Almeno loro si ribellano”, dicono. Come se bruciare autobus e molestare ragazze fosse una forma legittima di dissenso politico. Siamo oltre l’orologio rotto: l’intellettualismo progressista non segna nemmeno più le proverbiali due volte giuste. Nel frattempo, le città bruciano. E lo fanno tra i sorrisi dei selfie. La verità è che ci troviamo davanti a una nuova forma di guerra asimmetrica, non dichiarata ma sistematica, in cui giovani – spesso di seconda generazione, spesso provenienti da contesti culturali extraeuropei – mettono alla prova ogni giorno la tenuta dell’Occidente. Non c’è un manifesto, ma c’è un bersaglio chiaro: l’ordine europeo, la donna europea, la civiltà europea. L’uomo bianco e la sua parvenza di civiltà. E il sistema cosa fa? Giustifica, minimizza, premia. Distribuisce bonus morali.
L’estetizzazione della rabbia in La Haine
A trent’anni di distanza, viene il sospetto che La Haine non abbia semplicemente raccontato la rabbia delle banlieue, ma l’abbia anche (involontariamente) glamourizzata. Con il suo bianco e nero patinato, i dialoghi taglienti, la colonna sonora hip hop e i tre protagonisti trasformati in icone di culto, il film ha finito per trasformare il disagio in stile, la marginalità in posa, la violenza in linguaggio cinematografico cool. È il paradosso dell’estetizzazione: invece di denunciare, La Haine ha ispirato. Più che un atto d’accusa, è diventato un manifesto estetico per generazioni di giovani pronti a identificarsi non con la denuncia del degrado, ma con la sua rappresentazione più fotogenica. In fondo, non c’è niente di più postmoderno della rabbia raccontata bene. E non è un caso se molte delle rivolte odierne sembrano imitate più da film e videoclip che dalla vita reale. La realtà, oggi, rincorre la finzione. E l’incendio di un’auto fa molto più effetto se inquadrato con l’angolazione giusta per Instagram.
Riprendersi le città
Siamo passati dall’odio al divertimento. Ma il bersaglio è rimasto lo stesso: noi. E oggi il messaggio è ancora più pericoloso, perché mentre si presenta sotto la maschera dell’euforia, qualcuno prova a investire questi saccheggi di una portata ribelle. È ora di smetterla con gli alibi. Serve una risposta chiara, ferma, identitaria. Serve – soprattutto – non difendere l’ordine sbagliato delle cose. Lo stato liberale ha fallito, e questi allogeni non sono portatori di niente, se non della forma mentis liberale degradata all’ennesima potenza. Ma anche basta con i sociologismi da salotto: chi distrugge le nostre città non merita comprensione, ma disprezzo. Lo stesso che ha fatto prendere schiaffi ai maranza a Peschiera del Garda. Perché non c’è niente di politico in quello che fanno, nulla di estetico o lontanamente ribelle.
Vincenzo Monti