Roma, 6 nov – Segretario generale Ugl dal 2016, Francesco Paolo Capone è sempre stato molto attivo sul fronte delle emergenze attuali. E noi lo abbiamo raggiunto, disquisendo dei principali temi all’ordine del giorno: lavoro e impresa, in un’Italia che fa sempre più fatica “ad arrivare alla fine del mese”.
Lavoro e impresa: intervista a Francesco Paolo Capone
Lei ha partecipato come relatore a una conferenza tenuta a Milano, intitolata “La prospettiva generale del fare impresa”. Ce ne vuole parlare?
Quel convegno è l’ultima delle tante attività che conduciamo dal punto di vista culturale. Lo facciamo attraverso la pubblicazione di libri attraverso la casa editrice Edizioni Sindacali che è di proprietà dell’Ugl, attraverso la rivista Pagine libere, che abbiamo “recuperato” rifacendoci all’originale fondata nel 1906 dai sindacalisti rivoluzionari, che con fortune varie era sopravvissuta fino a 24 anni fa. Una serie di attività culturali, insomma. A Milano ci siamo concentrati sulla generatività dell’impresa. incarnata nel testo del professor Rosario Faraci Nient’altro che il futuro. La prospettiva generativa del fare impresa. Un testo che parla delle caratteristiche delle imprese del futuro che non potrà essere basata solo sui rendimenti ma sulla sostenibilità anche sociale.
Due battute sui concetti di lavoro e di impresa. Quali i punti di forza attuali e dove intervenire in modo radicale?
Dove si dovrebbe intervenitre in modo radicale è nella relazione tra capitale e lavoro. La maggior parte degli approcci sindacali in tal senso è ancora improntata sul concetto di lotta di classe, un concetto che andava bene un secolo fa.
Lotta di classe peraltro abbastanza “farlocca”, dal momento che non esiste nessun vero “contraltare” tra sindacati e datori di lavoro ma alla prova dei fatti si dimostra un teatrino inutile. O no?
Assolutamente sì. La maggior parte degli slogan sindacali, sul genere “lavorare meno per lavorare tutti” sono anacronistici. La lotta di classe agli inizi del XX secolo ha avuto una funzione fondamentale per l’elevazione delle classi lavoratrici, oggi ha una funzione completamente distaccata dalla realtà, e si estrinseca come puro rito o mito ma non come sostanza. Il nostro Paese, negli ultimi 30 anni, ha subito una perdita di potere d’acquisto del 5% dei lavoratori, al contrario che in altri Paesi dove lo stesso è crescito addirittura del 30. Direi che la dice lunga sulla plausibilità di questa “lotta di classe”.
Lei ha scritto una prefazione al volume Partecipazione. Il lavoro e le sfide del dopo pandemia. Il concetto mi pare riprenda in pieno quello della socializzazione dell’economia.
Sì, è una forma di impatto sociale, volendola rinominare. Il tema è molto vicino alla socializzazione, che è stato diffuso nella prima metà del secolo scorso. Ma è la stessa Costituzione a prevederla: una teorizzazione nata nel Ventennio precedente che però era stata ritenuta socialmente utile. Basterebbe applicare l’articolo 46 della carta per rinnovarne l’attualità.
Un commento sulla manovra economica del governo Meloni.
Erano anni che non si vedeva una manovra così sbilanciata verso il sociale, nonostante risorse limitate che non hanno permesso di soddisfare pienamente le esigenze dei lavoratori. Alcune di esse non sono state pienamente soddisfatte, ma aver messo 7 miliardi per il rinnovo del pubblico impiego, 10 miliardi per il taglio del cuneo fiscale nel 2024, 3 miliardi alla Sanità, o i due scaglioni unificati – i più bassi – dell’Irpef. Mi sembra che tendenzialmente non si possa bocciare una manovra con questi numeri, nonostante il tema della limitazione delle risorse e dell’intervento insufficiente sulle pensioni.
Noi abbiamo molto criticato la manovra, come quella dei governi precedenti. È vero che si è fatto tanto con le pochissime risorse disponibili, ma il problema è la possibilità di incidere in modo realmente pesante sull’economia oggi praticamente inesistente, perché gli interventi sono quantitativamente risibili. Come si può uscire da questa situazione di “piccole mancette”, ammesso che si possa fare?
Io credo che, con un atto di realismo, comprendo che ristabilire le regole per sforare il debito pubblico comporti poi delle reazioni dei mercati che in qualche maniera – come avvenuto nel passato – portano a rischiare pesantemente. Credo che l’approccio sia stato pragmatico, fare qualcosa di giusto senza rompere gli equilibri. Siamo un Paese singolo a sovranità limitata, c’è poco da fare di più.
Ma è proprio impossibile immaginare un lungo periodo in cui uno Stato sia un po’ meno dipendente dai mercati? È normale una cosa del genere o è criticabile?
Si tratta di una situazione indubbiamente criticabile. L’idea di Europa come un soggetto prima politico e poi economico è una mia idea, che appartiene anche agli identitari e alla destra. Per realizzarla – e dopo le elezioni continentali avremo un’idea più precisa – è necessario che il Ppe si batta per una politica europea di segno completamente opposto. Questo potrebbe aiutare a ricostruire qualcosa di meno orientato ai mercati e più alle esigenze della società.