Roma, 10 nov – Per quarant’anni, Mishima – Una vita in quattro capitoli è rimasto un film fantasma in patria. Diretto da Paul Schrader nel 1985, prodotto da George Lucas e Francis Ford Coppola, premiato a Cannes per il miglior contributo artistico, raccontava la parabola di Yukio Mishima, lo scrittore che unì penna e spada, bellezza e sacrificio, arte e azione. Ma in Giappone non venne mai proiettato. Troppo complesso, troppo occidentale, troppo vicino a una figura — quella di Mishima — che molti veneravano come eroe e altri consideravano una ferita ancora aperta.
Un esilio culturale lungo quarant’anni
Quando Schrader iniziò le riprese nel 1984, era costretto a indossare un giubbotto antitaglio: i nazionalisti lo accusavano di profanare un simbolo nazionale. Ma in realtà, più che di censura ufficiale, si trattò di un accordo silenzioso tra produttori e movimenti patriottici: il film si sarebbe potuto girare, ma non sarebbe stato proiettato in patria. Un compromesso figlio del rispetto — e della paura — che circondavano ancora la memoria dello scrittore. Perché Mishima, morto nel 1970 dopo il tentativo di restaurazione del potere imperiale, non fu soltanto un romanziere o un ideologo: fu la rappresentazione vivente del Giappone che rifiutava di farsi nazione satellite. Oggi, a un secolo dalla nascita di Mishima (1925–2025), il film è stato finalmente proiettato al Tokyo International Film Festival, e i biglietti sono andati esauriti in dieci minuti. Schrader, 79 anni, è tornato a Tokyo “senza giubbotto anticoltello”, accolto come un artista che ha saputo restituire al mondo un’immagine autentica — e tragica — dell’anima giapponese. La proiezione non è solo un evento cinematografico, ma un segno politico e culturale di rilievo: il Giappone del XXI secolo, dopo decenni di pacifismo costituzionale e dipendenza strategica, torna a parlare di difesa, sovranità e orgoglio nazionale. In questo contesto, la figura di Mishima non appare più come una follia del passato, ma come una premonizione del futuro.
L’identità mai davvero perduta del Giappone
Nel film, Schrader intreccia quattro temi — Bellezza, Arte, Azione, Armonia tra Penna e Spada — costruendo un ritratto sospeso tra memoria e mito. La fotografia satura di John Bailey, le scenografie astratte di Eiko Ishioka e la colonna sonora ipnotica di Philip Glass trasformano la vicenda in una liturgia estetica della volontà. Il corpo scolpito di Mishima, la sua ossessione per la forma, il richiamo al bushidō, la decisione di morire secondo il codice samurai: tutto parla di una civiltà che vedeva nella disciplina e nel sacrificio non la negazione, ma l’essenza stessa della libertà. Per anni, il film è stato vittima di un malinteso fin troppo occidentale: non era l’opera di un americano che “violentava” il mito giapponese, ma il tentativo di un artista occidentale di comprendere la bellezza come destino. Oggi, la sua proiezione sancisce la fine di un lungo esilio culturale. Il Giappone che quarant’anni fa non poteva sopportare il proprio eroe tragico, oggi si sente abbastanza forte da riconoscerlo. Riconoscendo nel lavoro di Schrader un tributo più che l’invasione di campo di un gaijin, uno straniero. Perché la forza, quando è consapevole, non teme la memoria.
Vincenzo Monti