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Pure Netanyahu sull’euronazismo: “Free Palestine nuovo Heil H…”

by Sergio Filacchioni
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Netanyahu

Roma, 26 mag – “Free Palestine è il nuovo Heil Hitler”. Con queste parole, pronunciate in un videomessaggio ufficiale, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha lanciato un attacco senza precedenti contro i principali leader europei. Emmanuel Macron, Keir Starmer e Justin Trudeau – pur con mille cautele e ambiguità – avevano chiesto a Israele una de-escalation a Gaza e una soluzione politica. La risposta è arrivata puntuale: “Siete dalla parte dei terroristi. Siete dalla parte sbagliata della storia”.

Netanyahu sposta la colpa storica a piacimento

Netanyahu non si limita ad accusare Hamas, ma travolge in un unico calderone tutta la comunità internazionale che osa criticare l’azione militare israeliana. Nella sua narrazione, ogni richiesta di tregua, ogni tentativo di difendere i civili palestinesi dalla fame e dai bombardamenti, diventa complicità con il terrorismo. Un linguaggio durissimo, che non risparmia nessuno: oggi, secondo il premier israeliano, è “nazista” chi chiede pace. Non è la prima volta che Netanyahu manipola la storia dell’Olocausto per finalità politiche. Nel 2015, intervenendo al Congresso Sionista, arrivò a sostenere che “Hitler non voleva sterminare gli ebrei, voleva solo espellerli. Fu il muftì di Gerusalemme a dirgli di bruciarli”. Una frase pronunciata con un preciso scopo, e non certo quello di “assolvere” Adolf Hitler: spostare il baricentro della colpa storica fuori dall’Europa, per farne un’arma da usare contro i nemici odierni. Una finestra di Overton – come direbbero quelli studiati – aperta dieci anni fa che oggi si allarga fino a travolgere non solo i palestinesi, ma chiunque metta in discussione le scelte del governo israeliano. E il paradosso diventa completo: dopo aver trasformato gli arabi in nazisti, ora lo stesso marchio viene affibbiato a chi, in Europa, tenta di difenderli.

La costruzione dell'”euronazismo” come strumento di dominio narrativo

Come spesso accade, una bugia non è importante per ciò che dice, ma per chi la dice. L’accusa di euronazismo, oggi agitata tanto da Israele quanto dalla Russia, non è frutto di un cortocircuito ideologico, ma di un’elaborazione strategica a lungo raggio. Il suo scopo non è quello di chiarire la storia, bensì di ridefinire i rapporti di forza sul piano delle percezioni e delle legittimità. È un’operazione metapolitica, che mira a bloccare sul nascere ogni autonomia decisionale del continente europeo. E qui veniamo al punto: un conto è che un qualsiasi attore politico e culturale europeo dica che gli arabi sono nazisti, un conto è che a dirlo sia Israele, con tutto il significato storico e politico che porta con sè. Stesso discorso vale per la Russia. E non è un caso che proprio le potenze che più fondano la propria narrazione sulla “memoria sacra” — la Grande Guerra Patriottica per Mosca, la Shoah per Tel Aviv — abbiano oggi interesse a proiettare il fantasma del nazismo proprio su chi non si allinea pienamente alla loro linea. Chi non obbedisce è nazista. Non importa che non lo sia, o che anzi sia l’esatto contrario, basta che venga percepito come tale. Il dispositivo funziona così: criminalizzare ogni movimento europeo che cerchi uno spazio di manovra autonomo tra le potenze, facendolo apparire come un rigurgito del passato da schiacciare. E per fortuna che siamo noi quelli che vivono nelle categorie di un secolo passato…

Netanyahu vuole delocalizzare la colpa delle colpe

L’operazione – va detto – è raffinata e multilivello: non solo serve a criminalizzare i palestinesi e chi li sostiene, ma anche a ricollocare l’Europa nella mappa delle colpe, rendendola oggettivamente inabile a parlare. È un attacco narrativo diretto al cuore del potere europeo: la pretesa di essere il luogo da cui parte il diritto e il giudizio. Se l’Europa è sempre il ventre molle da cui rinascono i totalitarismi, allora il suo diritto a esprimersi decade. Nel frattempo, Mosca e Tel Aviv – al netto delle distanze – si muovono in sintonia. Entrambe evocano un pericolo “fascista” che si nasconderebbe nei tentativi europei di prendere posizione, di non essere solo retrovia delle decisioni altrui. È una forma di accerchiamento ideologico: l’Europa non può più fare politica, può solo espiare. Non può agire, può solo pentirsi. Non può decidere, può solo farsi guidare. Una sorta di woke in chiave orientale. Così, ogni moto di sovranità – anche minima – viene dipinto come inquietante. Ogni banale esercizio di equilibrio diventa sospetto. E l’unico modo di non essere etichettati come “euronazisti” è accettare il ruolo di sudditi: di Israele, della NATO, della narrazione americana o russo-asiatica. In questo schema, l’Europa non deve più esistere come civiltà: solo come spazio geopolitico da gestire, come luogo neutro o occupato. È un gioco preciso di potenza e percezione: Israele e Russia non combattono solo guerre territoriali, ma guerre simboliche, dove il vero campo di battaglia è la legittimità a parlare, a giudicare, a dire no.

L’Europa si autorappresenta in maniera sbagliata

Ma tranquilli, oggi ne abbiamo per tutti. Nel mezzo di questa offensiva, infatti, l’Europa resta l’obiettivo primario: proprio perché rappresenta – o almeno idealmente vorrebbe auto-rappresentarsi – come l’ultima forma di civiltà che tenta di reggere sul diritto e non sulla forza. Niente di più sbagliato, ovviamente. Se il mondo corre verso la violenza simbolica e le narrazioni fondate su dei forti connotati identitari, non sarà professando ancora gli “immortali principi del 1789” che si uscirà da questa morsa. In ogni caso, nonostante le critiche interne – sovraniste e/o progressiste – che la dipingono ora come decadente, ora come servile o globalista, è proprio questa Europa (l’unica che esiste in questo continuum) ad attirare su di sé l’odio concentrato di chi vuole un mondo diviso in blocchi e retto dalla pura e semplice volontà di dominio. Il vero euronazismo, dunque, non esiste. Ma serve a chi ne parla per far sparire l’Europa reale e sostituirla con un simulacro criminale da annientare moralmente. Un’Europa senza parola, senza identità, senza iniziativa; a prescindere se abbia una vocazione nazionalista o progressista. Perché la verità è che l’Europa, da decenni, ha accettato il grande inganno americano: quello secondo cui la supremazia di Washington si fonderebbe sui “valori democratici” e non sulla bomba atomica. Ha creduto davvero che il diritto fosse più forte della forza, che l’etica contasse più delle portaerei. E su questo autoinganno ha costruito la propria identità postbellica, delegando tutto il resto: la difesa, l’economia, la cultura strategica. Ora però che il mondo torna a parlare il linguaggio della potenza, l’Europa si trova nuda. Vittima della sua stessa retorica, incapace di leggere le dinamiche del conflitto, pronta ad accusare il populismo dei suoi mali ma perfettamente conforme alle logiche che lo generano. E priva, su entrambi i fronti, di una vera cultura politica.

Il vuoto sotto il rumore

Tutto questo accade mentre in Europa infuria un dibattito surreale tra un establishment sempre più ripiegato su logiche internazionali disancorate dai popoli, e un’opposizione populista che si limita a sbandierare parole d’ordine senza visione, cultura, o struttura. Di fronte all’uso strategico della memoria da parte di Israele e Russia, alle loro operazioni di delegittimazione, la cosiddetta “marea sovranista” non risponde: balbetta. Non ha strumenti per comprendere la profondità dei giochi in corso, né volontà reale di opporsi. Si limita a puntare il dito contro la sinistra gender, contro Bruxelles o contro “l’Islam”, ma spesso finisce per fiancheggiare proprio quei poteri che dice di combattere — sostenendo le peggiori retoriche atlantiste, israeliane o reazionarie mascherate da difesa dell’Occidente. Nel duello da circo tra populisti che accusano l’UE di essere dittatoriale e sempre meno democratica (in questo sembrano aver digerito meglio di tutti l’inganno americano) e progressisti che gestiscono il green deal con il poncho (e il broncio) di Greta, la politica reale non esiste più. Nel frattempo, le vere dinamiche si giocano altrove: nei centri strategici, nei teatri geopolitici, nelle narrazioni costruite dai vincitori di ieri che non vogliono cedere lo scettro. Finché non emergerà una cultura politica che sappia integrare sintesi e direzione, visione e disciplina, ogni “fronte del dissenso” sarà funzionale solo a perpetuare l’irrilevanza. E chi oggi si indigna per essere accusato di “euronazismo” – da destra come da sinistra – senza comprendere le regole del gioco, rischia non solo di perdere la voce, ma di accorgersi di non averla mai avuta. L’Europa, pur nella sua confusione e nel suo masochismo, ancora pretende di parlare il linguaggio del diritto. Nobile. Ma in un mondo di voci armate e narrazioni forti, è l’unico vero crimine imperdonabile.

Sergio Filacchioni

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