Roma, 23 lug – Ogni epoca riscrive la sessualità, non per amore della libertà ma per esigenze di dominio. La sessualità non è mai stata un fatto privato: è sempre stata il punto di incrocio tra biologia e potere, tra desiderio e civiltà. Chi regola il sesso, regola l’ordine sociale. La sessualità è l’interfaccia tra individuo e specie, tra corpo e cultura, ed è proprio per questo che ogni trasformazione della sessualità porta con sé un progetto politico.
Sesso, potere, civiltà
Oggi siamo nel pieno di una rivoluzione antropologica che, come mostra Adriano Scianca in Contro l’eroticamente corretto, non si limita a ridefinire i rapporti tra uomini e donne, ma punta a cancellare la differenza sessuale stessa, a neutralizzare il corpo, a ridurre l’identità a un costrutto amministrativo, fluido, medicalizzato, pronto per essere gestito dal mercato globale e dalla burocrazia progressista. Non è un caso che questa rivoluzione si presenti come inclusiva, benevola o addirittura “scientifica”: come in una forma di soft power, si impone senza bisogno di violenza esplicita. Non opprime, rieduca; non proibisce, riprogramma. La fluidità di genere, la dissoluzione del binarismo sessuale, l’abbattimento delle categorie naturali non sono conquiste della libertà ma strumenti del nuovo dominio. Non esiste mai una rivoluzione sessuale neutrale. Ogni mutamento dei codici erotici corrisponde a un cambiamento nei rapporti di forza.
La rivoluzione sessuale nel tempo
Nel Neolitico la famiglia nasce per garantire la trasmissione del patrimonio e della discendenza, ed è in quel momento che la sessualità viene disciplinata, non per opprimere qualcuno, ma per stabilizzare la comunità. Maschi e femmine partecipano insieme a questo progetto. La donna non è vittima: è co-protagonista della costruzione della famiglia come unità politica. Nell’antichità classica, il sesso diventa strumento di educazione alla gerarchia. Attivo e passivo non sono solo ruoli sessuali, ma categorie sociali. La donna custodisce l’oikos, non come schiava ma come garante della trasmissione. Con il cristianesimo, la sessualità viene spiritualizzata: il corpo è sottoposto a disciplina morale, e la madre cristiana diventa il perno di un nuovo ordine domestico e religioso. Con il ’68 arriva la cosiddetta “liberazione sessuale”: il sesso esce dalle mura domestiche, ma non per diventare libero, bensì per diventare merce. Il corpo si trasforma in prodotto di consumo, la pornografia diventa industria, l’erotismo diventa marketing. Anche qui, la donna non subisce soltanto: si espone, partecipa, aderisce alla logica del desiderio come mercato. Il capitalismo edonista trasforma l’eros in shopping e produce individui soli e flessibili, sradicati e consumatori. Oggi siamo oltre: con la rivoluzione gender – sulla scia del ’68 – si entra non in uno spazio assolutamente libero (come vorrebbero farci credere) ma semplicemente in un nuovo regime biopolitico. Infatti, non si tratta più di liberalizzare la sessualità, ma di annullare la differenza sessuale. Judith Butler non lo nasconde: il sesso è già sempre genere, non esiste un dato biologico pre-discorsivo. Il corpo diventa quindi un testo riscrivibile, un oggetto neutro su cui la tecnica – o sarebbe meglio dire una tecnica ideologica – può intervenire. Uteri in affitto, transizione di genere, identità fluide: tutto è disponibile, tutto è reversibile, tutto è manipolabile. Il risultato non è la liberazione ma la creazione di un individuo standardizzato, senza radici, senza genealogia, senza appartenenza.
Il potere di Big Mother
Scianca parla apertamente di Big Mother per descrivere questo nuovo tipo di dominio: non più il padre che trasmette, ma una madre-sistema che accudisce e addomestica, che ingloba ogni differenza in un abbraccio asfissiante. La paternità cede il passo al controllo morbido del progressismo occidentale. Il sistema, come abbiamo detto, non reprime ma rieduca, non punisce ma riprogramma. La sessualità non è più esperienza vissuta, ma oggetto di ingegneria sociale. Non esiste più eros, solo protocollo. Ma c’è un punto ancora più profondo da chiarire: la critica alla dissoluzione del sesso non può fermarsi a un biologicismo da reazione pavloviana, perché nella storia umana la differenza sessuale non è mai stata solo un dato naturale. Nessuna civiltà sana si è limitata alla biologia. Virilità e femminilità sono sempre state, oltre che stati fisici, percorsi di crescita individuale, vie iniziatiche, processi di maturazione del sé. Non bastava nascere maschio o femmina per essere uomo o donna: bisognava diventarlo. Era necessario assumere un compito, acquisire qualità specifiche, superare prove. Il maschio diventava uomo passando per il rischio, il combattimento, la responsabilità, la protezione della comunità. La femmina diventava donna imparando la custodia della vita, il radicamento nella trasmissione, la continuità del sangue. Non si trattava di ruoli imposti, ma di un’ascesi del sé attraverso il sesso. La differenza sessuale non era solo fisica, era ontologica e culturale. Era sacra. Per questo tutte le civiltà tradizionali hanno previsto riti di passaggio: l’iniziazione virile, la cerimonia di pubertà femminile, i segreti trasmessi dai padri ai figli, dalle madri alle figlie. Oggi tutto questo è stato abolito. L’identità è diventata una scelta da dichiarare all’anagrafe, non un percorso da compiere. Il risultato è che viviamo in una società di eterni adolescenti, di adulti infantilizzati, di corpi sradicati da ogni destino.
La vendetta contro la vita
La teoria gender non cancella solo la biologia: cancella l’idea stessa di diventare qualcuno attraverso il proprio essere sessuato. Non c’è più maschile o femminile come compito, ma solo identità auto-percepita come capriccio. Nessuna formazione, nessuna disciplina, nessuna etica della differenza. È la fine di ogni civiltà dell’ordine, perché una civiltà sana educa il maschio a essere uomo e la femmina a essere donna, non si limita a registrare all’anagrafe i dati biologici ma costruisce il destino dell’identità attraverso la cultura e la responsabilità. Ma questa rivoluzione non nasce da un eccesso di forza creativa, bensì da una vendetta della debolezza. È qui che entra in gioco Nietzsche. La dissoluzione della differenza sessuale è un evento genealogico: non un progresso, ma un capovolgimento dei valori operato dal ressentiment. Non siamo davanti a una società che afferma un nuovo modello di umanità per eccesso di potenza, ma a una società che nega il modello precedente per invidia e rivalsa. Come ci insegna nella Genealogia della morale, il mondo moderno non crea valori, ma li rovescia. Non produce forza, ma si vendica della forza. La fluidità di genere, l’identità percepita, la neutralizzazione del corpo sessuato non sono espressioni di potenza vitale, ma di risentimento contro il dato naturale e contro l’ordine della crescita. Si odia la virilità come compito e la femminilità come destino, non perché siano oppressive, ma perché costringono a diventare, a superare sé stessi, a rischiare.
La morale degli schiavi
La società del gender non vuole più la prova, vuole la sicurezza. Non vuole più il limite, vuole la neutralità. Non vuole più la formazione del sé, ma l’autodefinizione sterile e reversibile. Siamo di fronte alla vittoria della morale degli schiavi applicata al sesso. Il corpo diventa un ostacolo da abbattere, non un punto di partenza da sublimare. Nietzsche lo aveva previsto: quando l’uomo non è più in grado di volere il proprio destino, si vendica della realtà stessa. È questa la rivoluzione sessuale del nostro tempo: non liberazione, ma vendetta contro la vita. La posta in gioco non è la tolleranza o l’inclusione, ma la sopravvivenza stessa dell’umano come essere capace di diventare, di crescere, di assumere il proprio compito sessuato. Difendere la differenza non è conservatorismo: è un atto di fedeltà alla vita, all’ordine, alla “grande” salute. La dissoluzione del sesso è la dissoluzione della civiltà. Ma è anche la fine dell’uomo che vuole superarsi. È la vittoria del nulla. In conclusione: la rivoluzione gender non è una rivendicazione di diritti, ma una ridefinizione totale del potere. Politico, perché sposta il controllo dei corpi e della riproduzione nelle mani della tecnocrazia globale, togliendolo all’unità politica di base (la famiglia, il clan, la nazione). In altre parole, “s-politicizza” (nel vero senso della parola) il sesso. Culturale, perché distrugge le tradizioni iniziatiche e i percorsi di formazione del sé, relegando maschile e femminile a semplice dato biologico. Simbolico, perché cancella l’archetipo della differenza sessuale su cui ogni civiltà si fonda. Non è progresso, è ristrutturazione del dominio.
Sergio Filacchioni