Roma, 24 lug – Almeno 12 morti, decine di feriti, villaggi evacuati e confini militarizzati: lo scenario al confine tra Thailandia e Cambogia è quello di un conflitto che esplode all’improvviso, ma che cova sotto le ceneri da oltre un secolo. I media occidentali si limitano a parlare di “tensione di confine” e “disputa territoriale”, ma la verità è che si tratta dell’ennesimo capitolo di una guerra culturale, politica e geopolitica che coinvolge due nazioni in cerca di una legittimazione interna e di un equilibrio regionale sempre più precario.
Thailandia e Cambogia: un conflitto in espansione
Tutto è iniziato all’alba, nei pressi del tempio di Ta Moan Thom, sito khmer risalente al periodo angkoriano e oggi teatro di uno scontro a fuoco tra eserciti regolari. Un attacco di artiglieria – che Bangkok attribuisce a Phnom Penh – ha colpito anche un ospedale civile nella provincia thailandese di Surin, uccidendo 11 civili e un soldato, tra cui anche un bambino. Altri 31 tra civili e militari risultano feriti. L’esercito thailandese parla apertamente di crimine di guerra. La Cambogia nega e ribatte: l’aggressione l’avrebbe iniziata la Thailandia. Nel frattempo, 40mila civili sono stati evacuati da 86 villaggi lungo il confine, mentre le autorità di Bangkok hanno chiuso diversi valichi e espulso l’ambasciatore cambogiano. Phnom Penh ha reagito nello stesso modo, portando le relazioni diplomatiche “al livello più basso”. Quello tra Thailandia e Cambogia è uno dei tanti confini “disegnati con il righello”, senza alcun rispetto per la geografia culturale o storica delle popolazioni locali. Il tempio di Preah Vihear, dichiarato patrimonio Unesco e ufficialmente assegnato alla Cambogia nel 1962 dalla Corte Internazionale di Giustizia, è solo uno dei simboli di una ferita mai rimarginata. La Thailandia non ha mai digerito quella sentenza, e considera ancora oggi le zone limitrofe “terra storicamente thai”. Tra il 2008 e il 2011, altri scontri causarono 28 morti e migliaia di sfollati. Oggi, il conflitto riesplode con un tempismo tutt’altro che casuale.
Instabilità politica e guerra sistemica
Dietro le cannonate, si muove la politica. Il premier cambogiano Hun Manet, figlio del vecchio autocrate Hun Sen, ha urgente bisogno di legittimazione interna: l’economia è in affanno, il malcontento cresce, e il servizio militare obbligatorio annunciato per il 2026 è stato giustificato proprio con la “minaccia thailandese”. Sul fronte opposto, il governo thailandese non se la passa meglio. La premier Paetongtarn Shinawatra è stata sospesa dopo un duro attacco politico innescato, ironia della sorte, da una rivelazione fatta trapelare proprio da Hun Sen. Il padre di Paetongtarn, l’ex premier Thaksin, figura ancora influente della politica thai, ha accusato direttamente Phnom Penh di interferenze gravi. Nel caos, la crisi di governo è servita su un piatto d’argento. Oltre alle cannonate, sono iniziati anche i sabotaggi economici: Phnom Penh ha bloccato l’importazione di frutta, carburante ed energia dalla Thailandia. Ha anche interrotto i servizi internet transfrontalieri, lasciando centinaia di villaggi “al buio digitale”. Non è solo guerra tra eserciti: è una guerra sistemica, e minaccia di far collassare l’economia delle aree rurali già fragili su entrambi i lati del confine.
La Cina è l’elefante nella stanza
A complicare ulteriormente lo scenario c’è la crescente presenza militare cinese nella regione: a Ream, base navale cambogiana affacciata sul Golfo della Thailandia, Pechino ha completato la costruzione di strutture in grado di ospitare navi da guerra di grande stazza, incluse corvette armate di missili. Ufficialmente destinate alla Marina Reale Cambogiana, quelle infrastrutture – secondo numerosi analisti regionali – garantirebbero alla Cina un accesso strategico permanente nel cuore del Sud-est asiatico, in aperta violazione della costituzione cambogiana che vieta basi militari straniere. Uno sviluppo che molti leggono come parte integrante della più ampia strategia di proiezione marittima cinese, e che contribuisce a squilibrare ulteriormente l’equilibrio militare, già precario, tra Thailandia, Cambogia e i membri dell’ASEAN. Come se non bastasse, il ritorno di Trump alla Casa Bianca getta ulteriore incertezza sul ruolo degli Stati Uniti nella regione: l’eventuale disimpegno politico di Washington, già sperimentato durante la sua prima presidenza, potrebbe abbandonare l’ASEAN a sé stessa, rendendola del tutto irrilevante nel contenimento dell’espansionismo cinese. Eppure, mentre la retorica parla di ritiro, sul piano militare gli USA corrono a trincerarsi nell’Indo-Pacifico, rafforzando basi, logistica e cooperazione difensiva con Australia, Filippine, Giappone e Corea del Sud, per costruire una vera e propria cintura di contenimento strategico attorno alla Cina. Il Sud-est asiatico si ritrova così incastrato tra due potenze in rotta di collisione, e l’ASEAN, frammentata e senza una linea unitaria, rischia di diventare poco più che un hub commerciale in balia del più forte. E il più forte, oggi, ha una bandiera rossa con cinque stelle gialle.
Il Sud-est asiatico è una polveriera
Mentre il conflitto si intensifica, la Cina, sempre attenta a ogni turbamento nel proprio “giardino di casa”, ha invitato formalmente al dialogo e alla de-escalation, proponendosi come mediatore “equilibrato”. Un modo, neanche troppo velato, per rafforzare la propria influenza in una regione dove l’Occidente balbetta. L’ASEAN, per ora, resta alla finestra. Ma la situazione è troppo delicata per essere ignorata: con il vicinissimo Myanmar in fiamme, l’apertura di un nuovo fronte nel cuore del Sud-est asiatico rischia di far esplodere una polveriera. Thailandia e Cambogia si guardano in cagnesco da decenni, ma stavolta sembra si sia superata la soglia del ritorno. L’uno accusa l’altro di “violazioni storiche”, entrambi mobilitano eserciti e propaganda. E mentre il sangue inizia a scorrere e le diplomazie tacciono, la possibilità che si passi dallo scontro circoscritto a un conflitto regionale non può più essere esclusa.
Sergio Filacchioni