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Dio è morto: impariamo a morire anche noi!

by Tony Fabrizio
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Roma, 4 giu – Se è difficile vivere, la soluzione non può essere di certo la morte facile. Sembra un bisticcio di parole e, invece, è la cronaca degli ultimi giorni. Senza differenza di latitudine, di età, di istruzione, di ceto sociale. La morte, con buona pace del Pascoli, ormai è sempre più vista come fine degli affanni, quale soluzione del problema: dai così ribattezzati “suicidi di stato” degli imprenditori ai tempi del governo Monti fino ai “femminicidi” degli ultimi giorni. Con le dovute differenze, innanzitutto di causa, sembra che la fine di tutto per qualsiasi cosa sia proprio la morte. Finendo per svilire il valore persino della morte stessa. Morti eroiche e valorose, paradigmatiche che vanno da Ettore e Achille sino a Dominique Venner e Fabrizio Quattrocchi.

Quando la morte diventa una triste scappatoia

Uomini e donne hanno da sempre interrotto le loro relazioni sentimentali, si sono sempre lasciati, ma l’uomo, prima di essere rieducato, si ubriacava per lenire le pene d’amore, si faceva vedere dalla sua bella con quante più ragazze possibili per farla ingelosire; se non riusciva nell’intento di riconquistarla, la mandava a quel paese, si arruolava nella Legione straniera, insomma, faceva mille svariate cose, ma mai pensava di morire e fare morire come soluzione al rifiuto. La vita ha un valore che è proprio e indipendente da ogni altro elemento perché unica e irripetibile è la vita e ciascuno di noi.

Chissà in quale modo pensa(va)no di continuare a campare quegli uomini che sono così dipendenti da una donna (che li respinge) dopo che l’hanno ammazzata; che valore può avere la propria vita e che considerazione si può avere di sé stessi se non si riesce a sopravvivere persino alle proprie azioni: è il caso del docente napoletano che augura la stessa morte subìta dalla dodicenne di Afragola alla figlia della Presidente del Consiglio. Martina avrebbe potuto essere una sua alunna e Ginevra, il prof. malato, nemmeno la conosce. Perché qua solo di malattia si può trattare. Ambienti diversi, circostanze differenti, entrambe vittime senza alcun punto di contatto. Solo l’odio, tra l’altro gratuito, del docente spacciato per idea politica e, da perfetto “paraculo”, dà la colpa all’intelligenza artificiale – molto più intelligente di lui, vista l’impossibilità di poterle addossare le colpe dello scritto – salvo poi dimenticare che non era la prima volta che si era reso autore di post intrisi d’odio contro esponenti dell’attuale governo. Alla fine, non reggendo il peso delle proprie azioni, pensa di ammazzarsi, ma prima avvisa la sua Preside. Voglia di morire saltami addosso, potremmo parafrasare.

Si dovrebbe smettere una volta per tutte anche con la nenia della morte petalosa che rende tutti buoni appena il corpo si raffredda.Anzi, è proprio la morte, il modo di morire che dà il senso alla vita che si è vissuto. È necessario, allora, chiedersi in primis cosa potrebbero insegnare persone con un ruolo sociale come queste e subito dopo come è possibile che persone come queste insegnino per davvero.

La scuola e l’odio dei partigiani 2.0

Non è questione di programmi ministeriali e di novità fantasmagoriche come l’educazione all’affettività. Un personaggio come Addeo potrebbe tranquillamente essere il degno educatore di un Filippo Turetta o di un Alessio Tucci, ma prima che per l’odio trasmesso, anche per il poco rispetto per sé e per gli altri, l’assenza di considerazione e l’inesistente autostima per sé stessi. E non è il solo caso isolato né una questione di “patriarcato”. Esistono anche casi onorevoli: pensiamo se i ragazzi del Blocco Studentesco – puniti, bocciati e da rieducare (proprio così: senza vergogna alcuna) avessero incontrato tra i banchi di scuola una Salis. Non il Sindaco Silvia, ma l’europarlamentare Ilaria, ribattezzata maestra, nonostante, per fortuna, abbia all’attivo solo qualche supplenza. Però è una che per l’odio politico, qualcosa di simile a quello del prof. Stefano Addeo, è andata oltreconfine a sfondare crani con martelli e manganelli retrattili nello zaino.

E sempre l’insegnante faceva – perché è stata licenziata, a differenza dell’Addeo che (al momento) è stato solo sospeso – tale Lavinia Cassaro che augurava la morte ai poliziotti, accusati di difendere (secondo lei), in realtà erano impegnati in un comunissimo servizio d’ordine, i fascisti di CasaPound che tenevano regolarmente una convention elettorale a Torino.

Casi diversi di odio, ma con l’unico comune denominatore della scuola. È pur vero che negli ultimi anni, e con un fine ben preciso, nella scuola si è “infornato” veramente di tutto, ma, poiché questi sono i risultati, forse occorrerebbe, oltre a punire il caso specifico, aprire anche una seria riflessione sul mondo dell’insegnamento.

Quella scuola cui, dopo lo smantellamento della famiglia (naturale e non tradizionale!) si è delegato il difficile compito di educare, ritorni a insegnare, a fare conoscere, a ricercare quel poco di sapere in più rispetto a ciò che non si sa; sia socratica e insegni a scegliere la morte tra una morte e il carcere nella misura in cui “se resto muoio e se scappo mi salvo la vita”. Che sembra proprio una cosa da partigiani 2.0, ma Socrate partigiano non lo era affatto e, infatti, scelse di bere la cicuta. E, se proprio si vuole osare, se proprio si ha coraggio – voce del verbo riportare al cuore – di cambiare e di cercare nuove strade faccia proprio il messaggio di Nietzsche: Dio è morto. Dio oggi è morto per davvero: allora impariamo noi a “morire nel tempo giusto”, impariamo a morire anche noi!

Tony Fabrizio

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