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Vietato il “Sì” finale: l’ennesimo tradimento verso l’Inno d’Italia

by Tony Fabrizio
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Roma, 23 dic – Non c’è pace per Il Canto degli Italiani, meglio conosciuto come Inno di Mameli. Quelle cinque strofe, con aggiunta della sesta proprio per celebrare l’Unità d’Italia, suggellate da quel “Sì” finale diventato “mamelico”, aggiunto dal maestro Michele Novaro che lo vide come un rafforzativo e un’aggiunta di enfasi allo già splendido testo.

I travagli dell’Inno di Mameli

Triste storia quello del nostro inno che non ci accompagnò nemmeno tra le due guerre mondiali; così atavico da essere addirittura lontano nel tempo, essendo nato nel Risorgimento e per giunta nel versante perdente, quello repubblicano; così poco appartenente a quegli italiani da poco “fatti” che c’era chi gli preferiva la Marcia Reale, chi l’Inno a Roma e chi l’Internazionale. Un triste destino il suo al punto che l’Inno era solo di Mameli che l’aveva scritto e non di Novaro che l’aveva musicato. Così tanto di Mameli da ignorarne persino il testo, perfetto per fare ribollire il sangue. In un senso e nell’altro. Purtroppo per tanto tempo solo nelle competizioni sportive e insieme con un altro inusitato vessillo: il tricolore. Nemmeno in occasione del secolo e mezzo di vita dell’Italia si poté dare all’inno l’ufficialità che meritava: l’allora presidente Berlusconi non poteva scontentare l’alleato Bossi. Eppure è un prestigio così alto, una riconoscenza così bramata che nel tempo La leggenda del Piave e Va’ pensiero gli hanno conteso l’ambita etichetta di inno d’Italia.

Nel delirio dei tempi moderni c’è stato finanche chi nel brano di Mameli ha trovato il modo di infilarci l’accusa di poca o nulla inclusività a causa dell’incipit “Fratelli d’Italia” e chi, da donna, con quelle stesse due parole ci ha chiamato un partito politico arrivato a essere il primo partito di governo ed espressione della Presidenza del Consiglio dei ministri. Se questo è il burocratichese, Il Canto degli Italiani ebbe il suo battesimo di fuoco sul campo già durante i moti carbonari e prima che l’Italia “si facesse”. Prima che si potesse parlare di italiani c’erano già le gesta eroiche a fungere da esempi come quelli di Balilla, dei Vespri Siciliani, dell’elmo di Scipio, di Francesco Ferrucci e lo sprone verso il sangue polacco e a stringersi a coorte. C’era già la chioma d’Italia quale schiava di Roma, una predestinata alla Vittoria in una sorta di amor fati di nicciana memoria che dimostra proprio umiltà e prontezza richiamando la grandezza di Roma nel servire la causa nazionale. Uomini di un’eroica, gratuita umiltà resisi “uni”, glorificati da versi che sono diventati orgoglio, identità, essenza. Parole, sentimenti condivisi, sentire comune che hanno fatto l’Italia e hanno fatto sentire italiani gli italiani. “Chiamati”, appunto, dall’Italia che li ha resi fratelli, uni, vittoriosi e non più divisi, calpesti e derisi.

L’assurdo divieto del “Sì” finale

Ecco perché appare alquanto singolare che i discendenti di questi combattenti, forgiatori della Nazione e del suo spirito patriottico scrivano al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per chiedere l’abolizione del “Sì” finale nell’esecuzione dell’inno, per eliminare a colpi di bianchetto da scrivania, appunto, la chiamata dell’Italia, l’essere pronti alla morte per l’Italia. Non regge l’appiglio alla “purezza” del testo che non contiene l’avverbio affermativo, eppure tanto potente, divenuto foriero di mal di pancia e musi storti da parte di quella falange impettita diventata poco più una Brigata posto fisso che già più volte non ha risposto “Sì” quando l’Italia ha chiamata. Anzi, non ha proprio risposto. Non regge perché è vero che la legge che sancisce l’ufficialità dell’inno, approvata dal Parlamento incredibilmente solo il 4 dicembre 2017, recita testualmente che “la Repubblica riconosce il testo del Canto degli Italiani di Goffredo Mameli e lo spartito musicale originale di Michele Novaro quale proprio inno nazionale”, ma è consuetudine l’aggiunta del “Sì” come risposta naturale degli Italiani, postilla proprio del Maestro per conferire enfasi e ritmo alla conclusione del brano.

Il presidente Mattarella, che spesso nei suoi discorsi cita il testo del nostro inno ed è passato quale suo divulgatore, ha parlato: “Silenzio!”. E ha di fatto vietato, almeno nelle cerimonie militari, il grido finale, ma non ha indotto nessuno alla riflessione – e perché no, anche al divieto – di quel circense “poropò” tra le strofe. Se proprio si vuole guardare alla purezza e nella fattispecie del testo si guardi allora proprio al poeta Goffredo Mameli che non si limitò a scarabocchiare su un foglio quattro parole di vuota retorica, perché a Roma, combattendo per la Repubblica romana donò la sua giovane vita. Un poeta che diviene eroe e mito perché fa scrivere di sé attraverso il suo gesto, anzi, le sue gesta. Uno sconosciuto che esorta a essere pronto alla morte e che per Roma, per l’Italia è morto rispondendo solamente “Sì!”.

Tony Fabrizio

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