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Gnoli e quell’incomprensione della sinistra per la Tradizione

by Michele Iozzino
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Roma, 22 ott – In un articolo, apparso poco tempo fa per Repubblica, Antonio Gnoli cerca di ricostruire, malamente, il rapporto della destra con l’idea di Tradizione. Quello che ne viene fuori è un ritratto falsato, a tratti paranoico, in cui la novità sarebbe la ricezione – vero o presunta – del tradizionalismo in Russia e negli Stati Uniti, con personaggi come Dugin e Bannon a guidare le “destre antiglobaliste e identitarie” verso una sorta di violento e oscuro rifiuto della modernità.

L’articolo di Gnoli su Repubblica

L’occasione dell’articolo di Gnoli è la recensione del libro dell’accademico inglese Mark Sedgwick – che erroneamente Gnoli indica come di origini danesi, probabilmente per il fatto che insegna all’Università di Aarhus – dal titolo Tradizionalismo. Verso un nuovo Ordine Mondiale. Sedgwick nasce come studioso del sufismo, per poi approdare allo studio del tradizionalismo, avendo di questo un visione apertamente critica. Curiosamente il suo Against the Modern World: Traditionalism and the Secret Intellectual History of the Twentieth Century del 2004 viene citato entusiasticamente dallo stesso Dugin. Per Gnoli, il tradizionalismo, che definisce “il ricorrere al passato aurorale per legittimare il presente”, si starebbe insinuando nel pensiero di destra di tutto il mondo, dando vita a pericolose “suggestioni culturali”. Il salto di qualità rispetto al passato è che quei “pensatori europei, marginali e scarsamente letti, come René Guénon, Julius Evola, Mircea Eliade, vengono riscoperti tanto in ambito americano quanto in quello russo”. Così, continua Gnoli, “Il pensiero Maga attinge disinvoltamente a quel costrutto di idee che ha eletto a nemico la modernità e il suo esito più prezioso e fragile, cioè la democrazia. Quanto all’ortodossia russa, rivestita di valori arcaici e religiosi, appoggia senza riserve la politica putiniana volta ad aggredire gli spazi di un ipotetico futuro ‘impero’ da riconquistare”. Insomma, si salvi chi può. Ora, scrivere che Guénon, Evola, ed Eliade, siano “marginali e scarsamente letti”, significa commettere un grossolano errore, ignorandone l’importanza e l’influenza (anche pop, se pensiamo che un regista come Francis Ford Coppola abbia tratto un film da un racconto di Eliade). È curioso notare anche una sorta di pregiudizio anti-europeo in Gnoli, come se quello che accade e si pensa nel Vecchio Continente non abbia davvero valore, ma acquisti davvero importanza solamente una volta varcato l’Atlantico o intrufolatosi al Cremlino.

Evola, Guènon, e lo spauracchio nero

Ancora peggio va quando Gnoli passa o, almeno, pretende di passare ai contenuti. Il tutto diventa una sorta di appropriazione culturale, di furto, dell’idea di Tradizione da parte di Bannon e Dugin, come se nell’ambito delle idee si possa davvero rubare alcunché. Oltretutto, a chi l’avrebbero rubata? A Evola e Guénon? Ma di questi Gnoli ci restituisce una caricatura sfocata, un’incomprensione di fondo. Possiamo leggere errori lampanti come quello per cui secondo Guénon le Upanisad“fondano la ‘Tradizione primordiale’”, e pertanto “qualunque tentativo di ascendere a una visione autentica del mondo deve perciò ricorrere a quella scienza sacra deposta nei testi scritti tra l’Ottavo e il Quinto secolo a.C.”. Al contrario, per Guénon, ogni tradizione è un eco sbiadito della Tradizione perenne, nessuna tradizione particolare ne può quindi rivendicare la proprietà esclusiva. Si potrebbe anche obbiettare che, sempre secondo Guénon, a contare davvero non sono i testi scritti, ma la catena iniziatica. Gnoli riduce i due all’essere anti-moderni, anti-storici, sognatori di un’utopia del passato: “Per Guénon, ma altresì per Evola, la storia è un incidente. Mentre la modernità legge il movimento storico come un’esperienza lineare arricchente (il mito del progresso), il tradizionalismo la interpreta come ciclica riproposizione della caduta”. Si potrebbe dire molto su questo punto, ma qui il rischio è di leggere i due autori come apertamente smobilitanti, come fautori di una sorta di decrescita felice, di un’uscita della collettività dal mondo. Ambiguità che per certi versi è effettivamente latente in Evola e, soprattutto, in Guénon, ma che non li risolve interamente. Più che un tornare indietro, prospettano un attraversamento. Non c’è nemmeno salvezza nello ieri, in un’epoca pre-moderna, perché l’intera storia umana è già nell’epoca oscura, nel Kali Yuga. Il massimo a cui si può ambire è che ristrette élite si mantengano salde. Evola, poi, è un pensatore che ha vissuto le contraddizioni del proprio tempo, dialogando con le avanguardie, capace spesso di essere un anticipatore. In grado di scrivere frasi come questa: “L’Assoluto non sta dietro, ma avanti (questa è l’irreducibile conquista che l’Occidente, col suo attivismo, ha realizzato sull’Oriente)”.

Gli “allievi” Dugin e Bannon

Le cose non vanno molto meglio nemmeno quando si passa a Dugin e Bannon, per quanto, perlomeno, Gnoli ci risparmia in parte i luoghi comuni, ma non per questo meno falsi, di un Dugin ideologo di Putin e di un Bannon lettore di Evola. Per Gnoli, Dugin “Ha ripreso la teoria schmittiana dei ‘grandi spazi’ e ridefinito, in chiave geopolitica, il concetto di Eurasia, per cui essendo la Russia nella sua essenza ‘archeomoderna’ può aspirare a diventare il nuovo perno tra Oriente e Occidente”. Fuori da ogni lettura escatologica, il multipolarismo di Dugin altro non è che l’applicazione del modello dello scontro di civiltà di Huntington da un prospettiva russa, forzando quindi l’Europa sotto lo spazio di influenza Russia. Su archeomoderno Gnoli prende un altro abbaglio. Per Dugin è il corrispettivo russo del post-moderno, dove “arcaico e moderno s’incatenano a vicenda, nessuno vince, limitandosi a torturare l’altro”. È quindi il coesistere paradossale dei lati peggiori di entrambi. Anzi, per il russo, “l’archeomoderno e il mantenimento dello status quo sono la peggiore prospettiva politica-filosofica immaginabile”. Bannon, che diventa incredibilmente “rappresentante più noto” della corrente Maga, viene descritto come “neo-isolazionista”, solamente tangente con alcuni aspetti del tradizionalismo, più interessato alla critica al globalismo. E, in effetti, Bannon con il tradizionalismo c’entra poco o niente.

Tra snobismo culturale ed errori grossolani

Nella ricostruzione di Gnoli, il tradizionalismo non sarebbe altro che una giustificazione del potere in quanto tale: “La domanda che sorge spontanea è quale Tradizione piace a gente così. Da tempo essa ha smarrito il significato di auctoritas conservando solo quello di potere”. Da qui anche una sorta di legittimazione regale di Trump, che però appare anti-tradizionale perfino agli occhi di Gnoli: “Come in un gioco di prestigio la legittimazione del suo ‘potere regale’ nasce dalle stesse qualità taumaturgiche che si attribuisce. È un circolo vizioso i cui tratti eliogabalici rendono la sovranità un’esperienza per ora farsesca. Un domani forse tragica”. Non si capisce allora come questa caricatura della investitura divina possa avere, come pretende Gnoli, un fondamento addirittura in Evola. Il trumpismo, con i suoi aspetti scenici, con le sue esagerazioni, con il suo populismo, è piuttosto figlio della democrazia stessa. Ma Gnoli non si ferma. Per lui questi autori sarebbero il “lato oscuro” e la “ferocia” che si nascondo dietro il sacro, pervertimento di una Tradizione finita in “mani poco abili” dopo essere stata ridicolizzata dalla scienza e dall’epoca dei lumi. Insomma, come spesso accade quando commentatori progressisti tentano di entrare nel campo avverso, quello proibito del mito, del divino, della verticalità, di quegli autori da loro stessi maledetti, l’incomprensione non potrebbe essere massima. Fa sorridere anche l’atteggiamento snobistico che si cela dietro tutto questo, ma nasconde un’ignoranza tanto più fastidiosa quanto più pretende di non esserlo. Il tutto sembra avere la serietà di un bambino che vuole rimpossessarsi del giocattolo, che pochi secondi fa lo aveva annoiato, solo perché ora è un altro a giocarci, trascurando il fatto che il mondo progressista con la Tradizione non ci ha mai giocato, ma l’ha sempre disprezzata.

Dugin, Tradizione, e tradizionalismo

Uscendo da quanto scritto da Gnoli, c’è un altro argomento di cui bisogna parlare. Come precedentemente accennato, Dugin ha di Sedgwick e del suo Against the Modern World un’opinione positiva, in quanto quest’ultimo riconosce che il tradizionalismo sia “uno dei fenomeni intellettuali più influenti del Ventesimo secolo” e soprattutto che “il tradizionalismo non è la Tradizione”. A ciò Dugin aggiunge la considerazione che“il tradizionalismo è più interessante e importante della Tradizione” perché in un certo senso esterno alla Tradizione stessa, avendo in sé una dimensione eminentemente moderna e nascendo appunto dal “cuore della modernità”. Al contrario, la Tradizione sarebbe semplicemente premoderna, incapace quindi di difendersi dalla modernità. Anzi, in un certo senso il tradizionalismo è perfino post-moderno, mettendo in discussione l’orizzonte di senso del pensiero moderno e dinamitandone le sicurezze. Posizioni anche interessante, in fondo il culto del passato non può bastare a sé stesso, anche se si tratta di un “passato che non passa”, e ignorare la frattura rappresentata dalla modernità significa perdersi in fantasie. Il problema è che Dugin questa necessaria “sintesi dell’antico e del nuovo”, per dirla con Romualdi, rischia di tradurla in chiave kitsch, non percependo, ad esempio, il ridicolo nella storia di Isabelle Eberhardt, descritta da Sedgwick come la prima iniziata europea al sufisimo, quindi anticipatrice del tradizionalismo, ma che “beveva come una forsennata, fumava hashish, portava abiti maschili e andava a letto con chiunque le capitasse a tiro”, o, ancora, il fatto che, secondo sempre Sedgwick, “Geènon non conosceva bene l’araba e fu convertito tra libagioni pittoriche post-impressioniste e le danze erotiche della sua amica Valentine de Saint-Point”. La questione non sono le inutili pruderie moralistiche che questi episodi potrebbero suscitare, quanto piuttosto una visione naive della Tradizione, scambiata quasi per un esotismo annoiato, una volontà di fuga dalla realtà, un alibi alla propria inconsistenza.

Michele Iozzino

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