Roma, 24 nov – Come può un’azienda fondata da una famiglia culturalmente britannica e protestante divenire simbolo di una nazione celtica e cattolica in lotta per l’indipendenza? Eppure, è esattamente ciò che è successo al birrificio Guinness.
Un ritratto inquietante
È uscita a settembre scorso la prima stagione in otto puntate di House of Guinness. Serie firmata da Steven Knight (già ideatore di Peaky Blinders) e incentrata sulle vicende della famiglia Guinness, creatrice della birra stout più famosa al mondo. Una serie che ha fatto parecchio discutere, soprattutto per la discrepanza tra il plauso della critica e gli scarsi ascolti del pubblico. E che, tra intrighi di potere e lotte politiche, traccia un ritratto inquietantemente lucido della Dublino vittoriana.
Evitando di soffermarci eccessivamente sulla trama, per non rovinare la suspence a chi ancora non ha visto la serie, limitiamoci a delinearne gli aspetti essenziali. La fiction prende avvio alla morte di Benjamin Lee Guinness – trisnipote del fondatore del birrificio, Sir Arthur Guinness I. Alla lettura del testamento la proprietà del birrificio viene assegnata al primogenito Arthur e al secondogenito Edward in egual misura. Da qui si susseguono le vicende dei due eredi (e degli altri due fratelli). Tra questioni personali, contatti con il movimento rivoluzionario indipendentista dei feniani e dinamiche politiche, vedranno l’ascesa della Guinness da birra “locale” a simbolo dell’Irlanda riconosciuto a livello globale.
Il paradaossi dei Guinness
Come dicevamo, questa ascesa parte da un “paradosso” che ci può lasciare spiazzati. La Guinness è divenuta il simbolo di una nazione culturalmente celtica e cattolica. Malgrado i suoi fondatori e proprietari non fossero né celti né cattolici (tuttora il marchio è di proprietà britannica). I Guinness, infatti, appartenevano alla ristretta élite dominante dei cosiddetti “anglo-irlandesi”. Si trattava o di famiglie dirigenti irlandesi convertite al protestantesimo anglicano. Anglicizzate anche dal punto di vista culturale (ed è questo il caso dei Guinness). Oppure di coloni protestanti inglesi e scozzesi giunti in Irlanda per sradicare e sostituire la vecchia classe dirigente gaelica e cattolica.
Com’è stata possibile allora questa “ascesa simbolica” in un contesto teso come quello dell’Irlanda nel pieno della sua lotta per l’indipendenza? In questo la serie è sorprendentemente precisa dal punto di vista storico nel fornire la spiegazione. Da un lato la sapiente “mossa di marketing”, escogitata dal fratello minore Edward, di scegliere come simbolo della Guinness l’Arpa di Brian Boru conservata al Trinity College. Una scelta addirittura osteggiata all’inizio dal fratello maggiore Arthur, in quanto la riteneva rappresentativa di un’Irlanda celtica e cattolica. E dall’altro la diffusione della birra scura oltreoceano attraverso la comunità irlandese negli Stati Uniti (soprattutto a New York e a Boston), la quale vantava numerosi contatti con il movimento indipendentista dei feniani.
Al di là della solita forzatura di Netflix
Ovviamente, essendo una serie targata Netflix, non poteva mancare un inserimento forzato di qualche minoranza (anche se, va detto, non eccessivo). Sfruttando il dato storico – reale – che il fratello maggiore Arthur non ebbe mai figli in cinquant’anni di matrimonio e che dunque si diffuse già all’epoca la diceria che fosse omosessuale, nella serie Netflix quest’ultima cosa passa automaticamente da diceria a fatto conclamato. Ma, come detto, non intacca eccessivamente la narrazione.
Ma guardando i punti assolutamente a favore di questa produzione, superano di gran lunga questa imperfezione politicamente corretta. La trama è ben strutturata, con dei protagonisti complessi che hanno luci ed ombre: guai a pensare che il protagonista sia automaticamente “buono”. Non manca inoltre una strutturata critica socio-storica, in questa serie che mostra da vicino la drammatica situazione dell’Irlanda martoriata dal dominio inglese. Una società divisa in maniera molto netta tra una ristretta élite dirigente anglo-irlandese protestante che parla inglese e una massa di contadini poverissimi (situazione ulteriormente aggravata dalla Grande Carestia del 1845-49, che uccise un milione di irlandesi e ne spinse altrettanti all’emigrazione in America), spesso analfabeti, e cattolici che parlano ostinatamente gaelico.
La colonna sonora
Altro punto a favore della fiction è la colonna sonora, che alterna e fonde in maniera arguta tracce più “moderne” con melodie tradizionali irlandesi rivisitate in chiave rock, donando dinamismo all’opera. Un sacco di scene se fossero state girate con musica più “consueta” al periodo storico sarebbero semplicemente noiose o superflue. Invece, questa scelta musicale conferisce alla fiction un ritmo incalzante che mantiene gli occhi dello spettatore attaccati allo schermo e che lo fa correre verso la puntata successiva.
Insomma, senza dilungarci ulteriormente, possiamo dire che – nonostante non abbia raggiunto per ora il successo di pubblico sperato – Steven Knight ha dato un degno successore al suo Peaky Blinders. E, per chi ha visto la serie, il finale della prima stagione lascia presagire che non sia finita qui.
Enrico Colonna