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No, non hanno ucciso l’Uomo Ragno: sotto la nostalgia, un inno alla gioventù

by Marco Battistini
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Roma, 15 lug – Metti un bel sabato sera in un tempio italiano della velocità. Ma non per vedere lo sfrecciare delle quattro ruote, preferibili – secondo Filippo Tommaso Marinetti – alla Nike di Samotracia. Piuttosto per ascoltare, in mezzo ad altre ottantacinquemila persone, la placida malinconia, tutta italica, delle note di Max Pezzali. Forse un ossimoro, quello tra il rombo dei motori e la nostalgia musicalmente impersonata dal co-fondatore degli 883. Sicuramente, da leggere tra le righe, un rinnovato inno alla gioventù. Ovvero la definitiva soluzione all’annoso caso dell’Uomo Ragno.

Solamente musica leggera. O forse no…

La chiamano musica leggera. Da sempre guardata con aria un po’ schizzinosa da parte di chi non vede arte se non in un certo senso di pesantezza, sonorità e parole del gruppo pavese – continuato poi nella carriera da solista dello stesso cantante – ci narrano da trent’anni uno spaccato della nostra Nazione in cui tanti nativi dell’era analogica possono rispecchiarsi.

Bar e bevute, discoteche e prime cotte, comitive di amici e immancabili due di picche. “Donne, motori, calcio, birra e musica” se proprio volessimo usare le parole dello stesso Max. Storie di una normalissima gioventù che esce, si diverte e si butta nel cambio generazionale lasciando perdere “tutta questa gente” sempre pronta “a giudicare tutto quello che fai, con chi ti vesti, con chi ti incontrerai”. Ma non è la ribellione fine a sé stessa di un Vasco qualunque che cerca solamente il senso statistico dell’esistenza. È piuttosto uno “strano percorso. Come fatto notare qualche tempo fa dagli amici di Progetto Razzia, non è nemmeno il mondo irreale e a tratti distopico immaginato da Jovanotti. Al contrario Max Pezzali ha messo in musica pregi e difetti di un’Italia reale.

A tratti anche dura e spinosa, come “nei cumuli di roba e di spade” riproposti live dopo tre decenni. Forse non a caso, se pensiamo ai successi che sta riscuotendo tra la generazione Z il sottogenere trap, già dal nome (lo slang americano trapping significa spaccio) strettamente legato al mondo della droga. Così tra amori e amicizie, e nonostante le teorie terra terra di quel Cisco che “si alza dalla sedia del bar chiuso”, c’è tempo di porsi interrogativi più profondi, ricercando la propria via.

Hanno ucciso l’Uomo Ragno?

Starò cercando lei o forse me?” ci si domanda in uno dei tormentoni senza tempo del Max nazionalpopolare. Sta di fatto che “tra deserto e praterie” l’unica certezza è nel “viso pallido” che continuerà a cavalcare. Non si fermerà. I giovani di ieri, diventati gli adulti di oggi, hanno affollato il prato asfaltato dell’autodromo di Imola. Tra una canzone da godersi abbracciati alla fidanzata e un’altra da urlare, magari con l’ennesima birra in mano.

Max Pezzali è nato punk (e con una tessera del Fronte della Gioventù in mano), ce lo ritroviamo, fattosi grande decisamente più moderato – se così vogliamo dire. Ma non è questo il punto: per sua stessa ammissione è stuzzicato dall’idea che la sua musica possa sopravvivergli. Il problema semmai è quando – nel passaggio dall’annoiata spensieratezza ai più duri risvolti della realtà – si finisce per uccidere l’Uomo Ragno che è in noi. Quando ci si trasforma, soprattutto nello spirito, in uno di quei “ragionieri in doppio petto pieni di stress”. 

E allora, diciassette anni tutta la vita, si griderebbe in altri contesti ben più politicizzati. Eppure se vogliamo il messaggio è lo stesso: non un rendersi ridicoli fuori tempo massimo, ma il continuare a inseguire battaglie da combattere, nonostante tutto. La nostalgia del passato, degli “anni d’oro del grande Real”, di quei vent’anni “volati via in un’attimo” lascia quindi spazio alla stessa propensione, ma verso il futuro dove ci si ritrova, magari “senza imparare la lezione mai”. E con i sogni ancora intatti.

Marco Battistini 

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