Roma, 7 dic – Dal fronte della Seconda guerra mondiale, attraverso la carriera militare fino al convento francescano, la vita di Gianfranco Maria Chiti, dichiarato dalla Chiesa Venerabile Servo di Dio, può sorprendere. Ma soprattutto dimostra che si può servire servire i propri ideali in ogni circostanza. Nel ventesimo anniversario della sua morte, vale la pena di approfondire la sua storia.
Gioventù al fronte
Gianfranco Chiti nacque nel 1921 a Ginese, in provincia di Novara, ma crebbe a Pesaro, dove il padre insegnava violino al conservatorio di musica. Fin da giovane sente la vocazione a due cose che segneranno la sua vita: una profonda vita spirituale e il servizio militare. Da ragazzo inizia la sua formazione religiosa con i francescani. A 15 anni entra nella Scuola Militare di Milano, per poi completare gli studi nella Scuola Militare di Roma e nell’Accademia Militare di Modena.
Quando uscì dalle soglie di questa accademia nel 1942, la Seconda Guerra Mondiale era già in corso. Così il ventunenne Gianfranco, con il grado di sottotenente, fu nominato comandante del 3º Reggimento della 21ª Divisione fanteria Granatieri di Sardegna e inviato sul fronte sloveno-croato. Nonostante la giovane età, si conquistò subito il rispetto di sottoposti e superiori, che lo apprezzavano per il suo innato carisma e coraggio, ma anche per la sua disponibilità.
Anche la sua religiosità era ben nota. Ovunque andasse con la sua unità, portava sempre con sé una statua della Vergine Maria e indicava un luogo dove recitare il rosario. Poco dopo iniziò uno dei periodi più difficili della sua carriera militare: nel giugno 1942, già con il grado di tenente, partì per il fronte orientale dove comandò una compagnia di un battaglione anticarro. Inizialmente la situazione favorì le Nazioni dell’Asse, ma in autunno la situazione cambiò radicalmente quando le forze russe passarono alla controffensiva. Gianfranco Chiti comandava quindi un raggruppamento di cannoni anticarro, che fu attaccato dalle forze russe, molto più numerose, il 16 dicembre.
La medaglia al valore militare
Dimostrò allora grande forza e coraggio nella lotta. Fu insignito della medaglia di Bronzo al Valor Militare con la seguente motivazione: “Comandante di un plotone di cannoni da 47/32 attaccato da ingenti forze nemiche, respingeva più volte col tiro preciso dei suoi pezzi le masse avversarie attaccanti, cagionando loro perdite gravissime. Esaurite le munizioni e ricevuto dal proprio comandante di reparto l’ordine di ripiegare con i resti della compagnia su posizione prestabilita e trovata la strada sbarrata da superiori forze avversarie, munite di numerose armi automatiche, si metteva alla testa di un gruppo di animosi, le attaccava decisamente, aprendo la via al proprio reparto e facilitando il movimento delle altre forze che seguivano”. Ha ricevuto anche la croce di ferro dalla Wermacht.
Dopo l’8 settembre
I pericoli, tuttavia, non erano finiti: le truppe italiane in ritirata dovevano ancora affrontare una lunga marcia attraverso le pianure innevate. Chiti, estremamente esausto e sofferente per i congelamenti, tenne alto il morale dei suoi soldati. E, se necessario, anche il loro corpo, sollevando da terra coloro che non ne avevano più la forza aiutandoli a camminare. Specialmente in questi momenti, vedeva nei suoi compagni Cristo, che non soffre per le proprie colpe, ma per i peccati dei potenti di questo mondo. I mesi successivi portarono a un ulteriore peggioramento della situazione di guerra dell’Italia. Gianfranco Chiti tornò in Patria e l’armistizio dell’8 settembre lo trovò nel nord Italia. Dopo un breve periodo di macchia, aderisce alla Repubblica Sociale Italiana.
Sebbene Chiti stesso non condividesse l’ideologia fascista, fu in questa Nazione che vide la continuazione del patriottismo italiano che combatteva fino alla fine per difendere la Patria, in contrasto con il sud, che aveva capitolato di fronte agli Alleati. Arrivato alla RSI, fu assegnato a un’unità di Granatieri dedicata all’eliminazione delle truppe partigiane. I suoi metodi si differenziano da quelli spesso usati dagli altri comandanti. Ha trattenuto i suoi soldati dall’usare il terrore e la violenza ingiustificata, preferendo la contrattazione e lo scambio di prigionieri di guerra e incorporando temporaneamente nella sua unità gli avversari catturati. Si stima che in questo modo abbia salvato circa 200 partigiani ed ebrei. Chiti dimostrò coraggio anche in battaglia e durante gli scontri con i partigiani a volte raccoglieva e gettava le granate nemiche.
Gianfranco Chiti, militare ed educatore
Dopo la fine della guerra, fu prima mandato in prigione e poi trascorse un periodo in diversi campi di concentramento. A causa del suo servizio nella Rsi fu portato davanti al Tribunale di guerra, davanti al quale testimoniò: “Affermo ancora una volta che solo la volontà di tutelare e difendere l’onore della Patria mi guido nell’assumere la mia missione nel settembre del 1943. Oggi, nelle stesse condizioni, farei altrettanto. Dichiaro che la bandiera della Repubblica sociale fu sempre e solo quella della Patria”. È da aggiungere che per il resto della sua vita evidentemente non cambiò idea sul suo servizio alla Rsi.
Nel suo testamento l’ha espressa ancora più chiaramente. Scrive: “Ringrazio il sommo Dio, Padre e Creatore misericordioso, di avermi collocato a servire l’amata Patria nell’Esercito Italiano e di avermi illuminato nell’ora di Giuda e di Barabba sui miei doveri facendomi aderire alla Repubblica Sociale Italiana agli ordini del Duce, onorando il mio Giuramento di Fedeltà alla Bandiera Italiana”. Il tribunale accettò la sua spiegazione e lo assolse completamente, il che gli permise di tornare al servizio militare.
“Dio, Patria e famiglia”
Nel 1948 entrò nelle file dei Granatieri di Sardegna con il grado di capitano. Un anno dopo si recò in Somalia dove fu assegnato al Comando Forze Armate di quel Paese, e al suo ritorno in Italia nel 1954 diresse un corso per allievi ufficiali somali. Negli anni successivi ha scalato i gradi della carriera militare, ricoprendo spesso incarichi di prestigio, in grande parte legati al 1º Reggimento Granatieri di Sardegna. Gli fu affidata anche la formazione dei futuri quadri militari, soprattutto presso la Scuola Sottufficiali di Viterbo, dove fu prima vicecomandante e poi comandante dal 1973 al 1978.
In tutti questi ruoli si fece conoscere come un soldato eccezionale e un organizzatore efficiente, oltre che come un eccellente formatore che sapeva motivare i suoi subordinati soprattutto con il proprio esempio. Era ammirato da tutti per il suo carattere forte e austero. Nei suoi discorsi citava spesso lo slogan patriottico “Dio, Patria e famiglia” e invocava gli esempi dei santi. Nonostante la sua apparente severità, trattava sempre tutti con cordialità e talvolta aiutava anche materialmente gli altri con i suoi modesti fondi.
Il saio cappuccino
All’inizio di maggio del 1978 va in pensione, dopo di che viene nominato Generale di Brigata. Già il 30 maggio entra nel convento dei Cappuccini di Rieti, realizzando un sogno a lungo coltivato. A chi rimaneva sorpreso da questa decisione, rispondeva che “non è caduto da cavallo come San Paolo”, ma ha cercato di vivere gli ideali francescani per tutta la vita. E quindi ha solo cambiato la divisa passando “al servizio del più potente dei Re”.
Tuttavia, non rinunciò alla sua posizione patriottica. Come monaco, organizzò messe per l’intenzione della Patria, e qualche anno dopo, nella sua predica, dichiarò che, in nome della riconciliazione nazionale, i caduti dopo l’8 settembre 1943 non dovrebbero più essere divisi “in quelli da onorare e quelli da dimenticare, ma si dovrebbe riconoscere che tutti, da una parte e dall’altra, si sono sacrificati per la Patria e l’hanno servita con dignità e onore”.
Il 1° novembre 1978 ha emesso i voti religiosi temporanei e ha aggiunto al suo nome quello di Maria e nel 1982 fu ordinato sacerdote. Quasi subito dopo, per la sua profonda fede ed esperienza, fu incaricato dai superiori di lavorare con i novizi, ricoprendo il ruolo di vicemaestro e poi padre spirituale del noviziato dal 1983 al 1985. Si impegnò costantemente anche con i Granatieri di Sardegna, di cui divenne padre spirituale a partire dal 1990.
Gianfranco Chiti: il generale del Signore
Nello stesso anno, le autorità dell’Ordine gli affidarono il restauro del monastero in rovina di San Crispino di Viterbo a Orvieto. Non era un compito facile. Ma padre Chiti si mise al lavoro con un vigore da vero soldato e trovò generosi donatori, dopodiché, con l’aiuto di volontari dei Granatieri, in pochi anni trasformò le rovine in un luogo di preghiera e in un centro spirituale. Come parroco della parrocchia locale, si occupò anche dei poveri e visitò il centro locale per tossicodipendenti. È al lavoro pastorale a Orvieto che ha dedicato gli ultimi anni della sua vita. Morì il 20 novembre 2004, a causa delle lesioni riportate qualche mese prima in un incidente stradale.
L’impegno di Gianfranco Chiti nel servire Dio e il prossimo è stato riconosciuto dalla Chiesa locale. Nel 2015 è iniziato il suo processo di beatificazione, la cui fase diocesana si è conclusa nel 2019. Nel gennaio 2024 è stato promulgato il decreto sull’eroicità delle sue virtù, che lo avvicina alla beatificazione e gli conferisce il titolo di “Venerabile Servo di Dio”. È quindi possibile che questo “generale del Signore” venga elevato agli altari nei prossimi anni.
Sylwia Mazurek