
Il corrispettivo calcistico di questo odio di sé, di questo delirio antinazionale, è senza ombra di dubbio il ct azzurro Cesare Prandelli, mediocre allenatore che non ha mai nascosto la profonda portata ideologica del suo impegno nella nazionale di calcio. In queste ore, il ct si è infatti lamentato: “Ogni volta che parli con colleghi all’estero, ti raccontano un calcio diverso, una vita diversa, un approccio differente dei tifosi. E’ importante dare tutto in campo e i sostenitori sono contenti. Noi dobbiamo migliorare da questo punto di vista. Prima si diceva che in Italia ci fosse tantissima pressione. Ora non c’è pressione, c’è ossessione. La situazione è complicata e io non sono tanto fiducioso sul futuro”.
Ovviamente, nel merito, si potrebbe replicare che in molti altri paesi la passione calcistica viene vissuta con toni molto più esasperati di quelli usati in casa nostra: pensiamo alla Turchia, al Sudamerica, all’Est Europa. Ma, se è per questo, la volgare invasività dei tabloid britannici nelle vite private di atleti e allenatori non è precisamente un segnale di placida e genuina passione. Insomma, le cose sono molto più complicate di come non le faccia Prandelli.
Quello che tuttavia disturba non è tanto il contenuto dell’affermazione, quanto il progetto politico-antropologico sotteso alle sue parole. L’eterno nemico dell’Italia è se stessa quando si batte il petto per non essere nata Inghilterra. Sono gli inglesi di casa nostra. Con l’unica consolazione che, in genere, i portabandiera di questa idea guadagnano qualche prima pagina ma finiscono presto nel dimanticatoio.
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[…] diventata argomento da avanspettacolo e di certo non di cronaca sportiva, ricordiamo tutti le sue dichiarazioni contro lo sport italiano e la sua saccente esterofilia nel dire che noi sbagliamo ad essere italiani […]