Roma, 6 ago – Due settimane fa, la Knesset — il parlamento israeliano — ha approvato l’annessione della Cisgiordania. Ieri è arrivata un’ulteriore svolta destinata a far discutere: il premier Benjamin Netanyahu ha dato il via libera all’occupazione militare di Gaza, con il sostegno del presidente statunitense Donald Trump. Una decisione che esaspera il conflitto e suscita una ferma condanna verso quelle che orami molti Stati (Europei e non) considerano violazioni sistematiche dei diritti del popolo palestinese.
Una confusione “storica”
Ma l’attualità riporta in superficie anche un dibattito ideologico che da almeno due anni circola negli ambienti politici e sui social: l’idea che Israele sia uno “stato fascista”. Uno slogan rilanciato dai centri sociali e da settori dell’attivismo internazionale, spesso accompagnato da formule come “antisionismo è antifascismo” o paragoni tra il progetto della “Grande Israele” e il Lebensraum nazista. Fino ad arrivare a etichette come “nazi-sionismo”. Dietro questi accostamenti però si nasconde una confusione storica e concettuale di vasta portata. A ben vedere in effetti, il sionismo moderno sarebbe l’esatto opposto del fascismo europeo, una co-produzione dell’antifascismo stesso, almeno dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. La sfida, per chi si muove in un’ottica di reale sovranità europea, è andare oltre le semplificazioni: non vedere automaticamente ogni sostenitore della Palestina come un “nemico comunista” e riconoscere che esistono anche altri popoli “oppressi” (indirettamente) dall’operato di Tel Aviv, ignorati però dalla narrazione dominante di sinistra.
L’identità religiosa surclassa quella etnica
La più “raffinata” delle argomentazioni pro Israele=fascismo fa leva sul concetto tedesco di Blut und Boden (“sangue e suolo”), base ideologica del Movimento Völkisch e poi del nazionalsocialismo. Ma, osservando criticamente, il paragone non regge per almeno due motivi. Primo: se c’è un popolo che vanta un radicamento secolare con quella terra sono i palestinesi, che per generazioni l’hanno coltivata e abitata, sviluppando una cultura locale e un’identità strettamente legata alla regione. Secondo: il fondamento dello Stato di Israele non è l’etnia (come molti apologeti a destra vorrebbero esaltare), ma la religione. La cittadinanza israeliana si basa sull’ascendenza ebraica, indipendentemente dall’origine geografica. La varietà etnica è ampia: dagli ebrei russi (la seconda lingua più parlata dopo l’ebraico) a quelli provenienti dall’Europa centro-orientale, fino agli ebrei etiopi (falasha). La “Legge del ritorno”, in vigore dal 1950, garantisce a qualunque ebreo del mondo il diritto di ottenere la cittadinanza israeliana, demolendo di fatto l’idea di un legame “sanguigno” con la terra. A confermare questo distacco dal concetto etnico, anche la retorica ufficiale israeliana: Netanyahu e altri leader citano spesso figure bibliche come Davide e Salomone, evitando riferimenti a re o condottieri della storia ebraica pre-diasporica. Basterebbe questa scelta identitaria per dimostrare che più che estremismo etnico, quello Israeliano è estremismo religioso.
I kibbutz come avanguardie del comunismo
Un’altra accusa ricorrente riguarda i kibbutz, descritti da alcuni come moderne comunità contadino-guerriere. Ma, storicamente, i kibbutz nacquero come esperimenti socialisti, ispirati ai kolchozy sovietici: terreni agricoli collettivi, gestiti in comune e basati su ideali social-comunisti. Non a caso, in passato ricevettero apprezzamenti e sostegno da figure della sinistra internazionale. Basti pensare che il primo kibbutz, Degania Alef, venne fondato nel 1910 sulle rive del Mar di Galilea da pionieri ebrei provenienti in gran parte dall’Impero Russo. Questi coloni appartenevano ai movimenti socialisti e laburisti dell’epoca e vedevano nella collettivizzazione della terra un modo per creare una società egualitaria e senza classi. Inoltre, a partire dagli anni ’80, il sistema dei kibbutz ha subito profonde trasformazioni: privatizzazioni parziali, apertura a forme di economia mista, ingresso di lavoratori esterni. Questo ha progressivamente allontanato il modello originario da quello comunitario-socialista, rendendolo ancora meno assimilabile a un ideale di stampo fascista che pure vedeva nel lavoro della terra un mezzo per sottrarsi all’egemonia delle economie finanziarie.
Israele e la sinistra italiana
Ma uno sguardo da vicino alla storia politica italiana, come ricostruita da Claudio Brillanti per le edizioni dell’Università La Sapienza, aiuta a comprendere meglio quanto sia fuorviante (e assai più nuovo di quanto si pensi) il parallelo Israele–fascismo. Fino al 1967, infatti, molte forze politiche di sinistra vedevano Israele come un giovane Stato nato su valori comuni alla Resistenza e all’antifascismo, in continuità ideale con i principi fondativi della Repubblica italiana. Nella cultura politica del dopoguerra, il kibbutz non era percepito come una comunità “völkisch”, bensì come simbolo di un esperimento socialista e comunitario, oggetto di ammirazione e mito ampliamente diffuso. Brillanti evidenzia anche come il dibattito sul conflitto arabo-israelo-palestinese sia sempre stato complesso e stratificato — nazionale, religioso, geopolitico e simbolico — e come la retorica antisionista, in alcuni casi, abbia veicolato stereotipi antiebraici, sfumando il confine con l’antisemitismo. Infine, nota come, dopo il 1967, sia i filo-israeliani che i filo-palestinesi abbiano richiamato il paradigma resistenziale per legittimare posizioni opposte, confermando che la questione, più che una linea retta, è un terreno di narrazioni contrapposte all’interno dello stesso paradigma antifascista.
Israele=fascismo, uno slogan buono per gli antifascisti
Alla luce di questi elementi, il paragone Israele-fascismo appare più come un’abbreviazione propagandistica — semplice da comunicare e utile nei cortei — che come un’analisi storica solida. Una prassi consolidata dalla comunicazione antifascista: dare del fascista a chiunque. Anche a chi evidentemente non lo è. Che il sionismo sia criticabile per la sua politica verso i palestinesi è lampante; ma equipararlo alle ideologie totalitarie europee del Novecento significa ignorare differenze storiche, strutturali e ideologiche fondamentali. D’altronde, a ben vedere, si potrebbe dire che è stato l’antifascismo internazionale a creare il Sionismo moderno, condividendone i fini e i propositi più radicali. Insomma la questione palestinese, nel tempo, è stata fagocitata da slogan contrapposti: da un lato la sinistra movimentista che ne fa una bandiera, dall’altro il sovranismo europeo che tende a identificare il sostegno incondizionato a Israele come segno distintivo e imprescindibile. Entrambe le letture, però, rischiano di banalizzare una realtà più complessa costantemente in evoluzione.
Enrico Colonna