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Rom e Milano: il racconto pietista non spiega (e non risolve) nulla

by Sergio Filacchioni
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Rom

Roma, 14 ago – La tragedia della pensionata travolta e uccisa da un’auto guidata da giovani rom ha lasciato un segno profondo nel dibattito politico. Come sempre, le reazioni si sono divaricate: da una parte, il giustificazionismo di chi riduce tutto a “bambini vittime della politica e della società”; dall’altra, una lettura realista di ciò che nei campi rom si insegna e si tramanda.

Sui Rom il solito registro pietista

La narrazione pubblica si è subito rifugiata nei soliti tre registri “pietisti”: i bambini “fantasma” che esistono solo quando finiscono in cronaca nera; il degrado come frutto dell’indifferenza dei benestanti; la microcriminalità descritta come fenomeno universale, senza radici etniche e potenzialmente redivivo a qualsiasi latitudine. Un racconto parziale, che tranquillizza la coscienza, ma che non affronta la sostanza: da anni quelle baraccopoli sono lì, note a chi governa la città, popolate da generazioni nate in Italia senza documenti, senza scuola, senza alcun percorso reale di integrazione. Si preferisce spostare la colpa sui cittadini “distratti” piuttosto che sulle istituzioni che hanno la responsabilità di intervenire. E così l’ovvietà che “il crimine non ha etnia” – anche se come abbiamo già detto altre volte, che in Italia gli immigrati delinquono di più è un fatto e non un’opinione – diventa un pretesto per non parlare di politiche mancate, di controlli inesistenti, di obblighi scolastici rimasti lettera morta. La realtà è che intere comunità vivono in un limbo di illegalità tollerata, alimentando un’economia informale che inizia a coinvolgere i minori già in tenera età.

Milano e la marginalità

Anche a Milano, come nei fin troppo noti sobborghi parigini e belgi, si sono create sacche etniche chiuse, dove la legge dello Stato è intermittente e le regole della comunità valgono più di quelle ufficiali. Questi quartieri non sono semplicemente poveri: sono separati. Si sviluppano come luoghi privi di radici comuni con il resto della città, dove l’identità collettiva si costruisce in opposizione alla società circostante e la criminalità diventa insieme fonte di reddito, strumento di affermazione e linguaggio comune. Una tendenza che finisce per “estetizzare” la marginalità: il disagio si fa stile e la violenza un linguaggio cool. Emblematico il successo di qualche anno fa del baby rom rapper 500Tony che cantava: “A scuola non ci vado, forse non hai capito, sono il prossimo capo…”. In questo contesto, il pietismo di certa stampa non è innocuo: è complice. Trasforma un problema strutturale in una favola morale, assolve chi amministra e rinvia all’infinito ogni intervento. Ma come in Francia, dove l’esplosione periodica di rivolte e saccheggi ha dimostrato il fallimento dell’integrazione, anche a Milano basta una scintilla perché queste sacche di marginalità si trasformino in epicentri di conflitto urbano, come successo a novembre nel quartiere di Corvetto dopo la morte di Ramy Elgaml. In un contesto urbano che appare sospeso—dove i ricchi vivono in torri-lusso mentre altri restano confinati in ghetti informali—Milano è lo specchio di un capitalismo urbano irresponsabile, dove la rigenerazione architettonica convive con la desertificazione sociale. Il risultato è una città divisa: gruppi allogeni rimangono imprigionati nella marginalità mentre élite apolidi si ergono tra spazi verdi sospesi e uffici panoramici. Mentre gli italiani, vengono espulsi sistematicamente verso la periferia da questa forza centrifuga fatta di caro vita, insicurezza e precarietà.

Situazioni di degrado normalizzate

A ricordarlo è stata anche Simonetta Matone, ex magistrato e parlamentare, che in più occasioni ha spiegato come nei campi rom non si insegni l’integrazione, ma spesso si trasmettano modelli di vita basati sull’illegalità, sullo sfruttamento minorile e sull’economia criminale. Nessun bambino nasce ladro – ha sottolineato – ma in certi contesti si cresce imparando che rubare è normale e che le regole comuni non si applicano alla propria comunità. Il ministro della Famiglia e delle Pari opportunità, Eugenia Roccella, è stata altrettanto netta: “La sinistra ha frenato l’integrazione dei rom. I campi sono un modello fallimentare, spostati da un quartiere all’altro senza progettualità, spesso protetti da cooperative e associazioni che sull’assistenzialismo hanno costruito un’economia parallela. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: una percentuale bassissima di bambini a scuola e un sistema incancrenito che deve essere spezzato”. Sulla stessa linea Carlo Fidanza, eurodeputato di Fratelli d’Italia, che ha ricordato come l’insediamento abusivo di via Selvanesco fosse noto da tempo: “Segnalazioni dei comitati e dei commercianti, lettere dei nostri consiglieri municipali al sindaco, già a marzo e a maggio. Ma si è preferito non agire. Il risultato è un contesto fuori controllo, dove l’approccio buonista ha lasciato prosperare situazioni di illegalità conclamata”.

Su Rom non farsi polarizzare

La lezione sembra chiara già da tempo: o si rompe la logica della “banlieue all’italiana” – fatta di enclave etniche chiuse, assistenzialismo senza contropartite e illegalità di fatto accettata – o Milano (e le altre grandi città amministrate dalla sinistra) seguiranno la stessa traiettoria dei sobborghi metropolitani del continente. Le sparate di Salvini alla “radiamo al suolo i campi Rom” sono utili a fare visualizzazioni e polarizzare il discorso sulle coordinate che piacciono alla sinistra: il governo dei razzisti che si scaglia contro le minoranze etniche perseguitate già negli anni ’30… Eppure il punto è proprio questo: non è questione di “radere al suolo” per vendetta, ma al massimo impedire che crescano intere zone franche dove lo Stato abdica e l’illegalità diventa identità. In questo senso l’integrazione tanto sbandierata è già avvenuta, ma a ruoli invertiti: non sono i rom a essersi inseriti nella comunità nazionale, è l’Italia ad aver accettato la logica della marginalità, adattandosi al degrado e normalizzandolo. Ma a dar retta alla sinistra, sappiamo già a cosa si andrebbe incontro: città dormitorio perennemente in affitto, centri storici che si trasformano in bomboniere turistiche e quartieri che somigliano a campi profughi. Ci aspetterebbe l’“integrazione perfetta” al nulla globale – e, come tutti i popoli delocalizzati che avessero perso il senso del tempo e della storia, finiremmo per perdere anche la nostra terra.

Sergio Filacchioni

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