Roma, 20 ago – Il 20 agosto del 1995 si spegneva a Losanna Hugo Pratt, padre di Corto Maltese e maestro indiscusso della “letteratura disegnata”. A trent’anni dalla scomparsa, la sua figura resta difficile da imbrigliare nelle categorie che troppi hanno cercato di appiccicargli addosso. Pratt fu un uomo libero, un avventuriero che visse la vita come i suoi personaggi: senza regole, se non quella – unica e inderogabile – della lealtà verso gli amici. Uomo di viaggi, di contraddizioni, di memorie belliche e di amori smisurati, Pratt attraversò il secolo breve come un vero gentiluomo di fortuna, capace di raccontarlo con l’inchiostro e con la vita.
Hugo Pratt, un destino scritto nel sangue
Ugo Eugenio Prat nacque a Rimini il 15 giugno 1927, ma trascorse l’infanzia a Venezia, “in una casa battuta dal vento e dal mare”. Il nonno Joseph, francese emigrato in Italia, era stato uno dei fondatori del Fascio di Venezia. La sua giovinezza, tuttavia, non ebbe tempo di consolidarsi tra calli e laguna. Nel 1937 il padre Rolando, sergente della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, fu trasferito in Abissinia e poco dopo lo raggiunsero la moglie Lina e il piccolo Ugo. Lì, in Africa Orientale, il ragazzo visse anni che segneranno per sempre la sua forma mentis. Nel 1941 Rolando venne catturato dagli inglesi e internato a Dire Dawa, dove morì nel 1942 per le durissime condizioni di prigionia. Prima di essere portato via riuscì a regalare al figlio una copia de L’isola del tesoro di Stevenson: un lascito profetico. A tredici anni Ugo stesso, insieme al padre, si arruolò in un battaglione della Milizia coloniale formato da studenti. Compito: difendere i civili dagli attacchi dei predoni. Era il battesimo della guerra. Silvina Pratt, la figlia, ricorderà: «Soldato adolescente, ha visto suo padre fascista morire sotto il sole d’Africa».
Il ritorno in Italia al fianco di Mussolini
Gli inglesi non risparmiarono donne e bambini. Pratt e la madre furono deportati a Dire Dawa, trasformato da aeroporto italiano in campo di concentramento britannico, sorvegliato da truppe senegalesi. La figlia Silvina ricorderà: «Cinquemila donne, una ventina di ragazzini, e un’infinità di bambini. Tutti stipati in hangar di lamiera arrugginita, due anni tra sabbia, scorpioni, sole implacabile e fame». L’adolescenza di Hugo si consumò lì, tra sopravvivenza e prime esperienze vitali, in una miscela di tragedia e iniziazione. Nel 1943, dopo un anno di prigionia, Pratt e la madre rientrarono in Italia con le Navi Bianche. Ma la guerra non era finita: all’armistizio dell’8 settembre, Ugo – appena sedicenne ma fisicamente già “adulto “scafato”– corse ad arruolarsi volontario come marò della Decima MAS, nel Battaglione Lupo. Fu la madre a strapparlo via dal destino di combattente repubblicano, rivelando ai comandi la sua vera età. Ma lui non rinnegò mai quell’esperienza: «Mi aiuta il cuore a battere», dirà molti anni dopo. Adriano Bolzoni, nel Secolo d’Italia, lo ricorderà così: «In uno scrignetto conservava gli alamari della Decima. Orgoglioso di aver militato nell’esercito della RSI, nulla poté mai impallidire quel ricordo».
La chiamata di Buenos Aires
Finita la guerra, Pratt sopravvive facendo l’interprete per gli inglesi, ma il destino lo chiama altrove. Nel 1949 lascia l’Italia e si imbarca verso l’Argentina di Perón, terra promessa per molti reduci e sconfitti della guerra mondiale. È un Sudamerica che accoglie una diaspora di irregolari: italiani e tedeschi scappati dall’Europa in macerie, ustascia croati in fuga dalla vendetta titina, franchisti reduci dalla guerra civile spagnola, anarchici sopravvissuti alle mattanze e persino il medico personale di Philippe Pétain. Buenos Aires diventa un richiamo per tutti i “perduti”, un crocevia di uomini senza patria, di ex combattenti e di esuli politici che si portano dietro ideali, cicatrici e visioni. In questa compagnia di avventurieri disillusi, Hugo Pratt si muove come a casa. Condivide serate, ricordi, racconti di fronti lontani. Da quegli incontri assorbe un respiro internazionale che nessun altro fumettista italiano della sua generazione possiederà. L’Argentina gli offre molto di più di un rifugio: è il laboratorio dove la sua vocazione narrativa si trasforma in mestiere. Collabora con riviste locali, fonda insieme a Mario Faustinelli e Alberto Ongaro l’Albo Uragano (poi Asso di Picche), e dirige corsi di disegno frequentati da giovani che vedono in lui un maestro.
L’incontro fatidico con Borges
Ma soprattutto, a Buenos Aires, incontra Jorge Luis Borges. “A vent’anni ho avuto la fortuna di conoscerlo – dirà – mentre in Italia arrivò molto più tardi”. Borges non è solo un autore: è la prova vivente che letteratura, mito e immaginazione possono fondersi in un unico ordito. Da lui Pratt apprende che si può raccontare il mondo attraverso simboli, che l’avventura non è mai solo geografia, ma anche metafisica. È l’influenza decisiva che lo trasforma da semplice disegnatore a vero e proprio “intellettuale del fumetto”. Pratt stesso riconoscerà che l’Argentina gli permise di allargare lo sguardo come nessun altro luogo. Nelle case degli emigranti, tra un andaluso e un libanese, un francese e un italiano, si componeva – racconterà – “una sorta di società acculturata”, un microcosmo europeo in esilio, dove si discuteva di politica e letteratura, di guerre appena perdute e di rivoluzioni mancate. In quel milieu di reduci e scrittori, Pratt affila la sua penna e la sua visione. Lì nasce il seme di Corto Maltese: un uomo senza bandiera, capace di muoversi tra le rovine della Storia con lo sguardo ironico e distaccato dell’avventuriero.
Corto Maltese: alter ego e mito
Il 1967 è l’anno della svolta. A Genova, insieme all’editore Florenzo Ivaldi – anch’egli reduce della Decima MAS – Pratt fonda la rivista Sergente Kirk. Tra storie argentine, classici americani e inediti, fa il suo ingresso un marinaio con orecchino all’orecchio, cappello bianco e lunga giacca nera. Il suo nome è Corto Maltese. Con lui nasce non soltanto un personaggio, ma un universo narrativo che cambierà la storia del fumetto europeo. Corto Maltese non è un supereroe e non è un “buono” nel senso tradizionale. È un uomo libero, capace di muoversi in un mondo di contrasti, senza dogmi e senza appartenenze, fedele a un’unica regola: «Non sono un eroe, mi piace viaggiare e non amo le regole, ma ne rispetto una soltanto, quella di non tradire mai gli amici». Cinico e romantico, ironico e malinconico, sa uccidere se necessario ma non è un assassino. Sa inseguire tesori, ma non è interessato alla ricchezza. Preferisce sempre la libertà. La sua biografia immaginaria si intreccia con la Storia: nato a La Valletta nel 1887, frequenta Venezia, l’Argentina, l’Africa coloniale, il Pacifico. Assiste alla Prima guerra mondiale, incontra il Barone Rosso, sfiora Rasputin e Gabriele D’Annunzio, incrocia massoni, rivoluzionari, pirati e avventurieri. Vive in un secolo attraversato dalle grandi fratture politiche, ma non si fa mai ridurre a pedina. È sempre dentro la Storia, ma in posizione obliqua, laterale. Non si schiera per partito preso: sceglie, di volta in volta, da che parte stare.
Un eroe Mediterraneo
In questo senso, Corto è l’alter ego di Pratt. Come il suo creatore, è figlio della laguna e delle guerre perdute, spettatore disincantato di ideologie che divorano gli uomini. Corto porta in sé lo spirito del Mediterraneo – agile, asciutto, ironico – ma anche la nostalgia per mondi lontani, per mappe da inseguire e città da scoprire. È l’uomo che si incide la “linea della fortuna” sulla mano, pur di sfidare il destino. Non è un caso che la sua avventura inaugurale, Una ballata del mare salato, sia considerata il primo vero romanzo a fumetti. Non un insieme di vignette, ma un’opera narrativa compiuta, in cui paesaggi, dialoghi e psicologie hanno lo stesso peso di una prosa letteraria. È qui che Pratt, con il suo tratto rapido e le campiture d’acquarello, dimostra che il fumetto può essere poesia. «Dietro alla poesia – dirà – si nasconde una profondità che percepisco immediatamente. Come la poesia, il fumetto è un mondo di immagini obbligato a coniugare due codici, immagine e parola». Con Corto Maltese, Pratt consegna al Novecento un nuovo mito mediterraneo: un eroe “omerico” che rifiuta la morale, che preferisce l’amicizia alle ideologie, la libertà alla ricchezza, l’avventura alla sicurezza. Una figura che ancora oggi parla a chi non si accontenta di vivere secondo regole già scritte, ma cerca sempre “un po’ più in là”.
L’Odissea secondo Pratt
Pochi ricordano che, prima ancora di Corto Maltese, Hugo Pratt aveva già affrontato il mito del marinaio per eccellenza: Ulisse. Nel 1963, tornato dall’Argentina sprofondata nella crisi economica dopo tredici anni di intensi lavori in Sudamerica, Pratt firma per il Corriere dei Piccoli una monumentale Odissea illustrata in 25 puntate, con testi di Franca Ongaro. È un’opera di passaggio, ma anche di piena maturità: un ponte tra il fumettista cresciuto alla scuola sudamericana di Héctor Oesterheld e il futuro autore “autoriale” che avrebbe creato Corto Maltese. Pratt, affiancato da Mino Milani e dalla stessa Ongaro, in quegli anni traduce in immagini l’intero pantheon dell’avventura: da Sinbad il marinaio alle Fatiche di Ercole, da L’isola del tesoro al Ragazzo rapito. È un laboratorio febbrile di miti e archetipi che confluiranno poi in Corto, in Fort Wheeling e nelle altre opere adulte. Ma l’Odissea ha un rilievo particolare, perché porta Pratt al cuore del canone occidentale: Omero, l’autore fondativo. Non si tratta solo di un adattamento didascalico per ragazzi. Pratt coglie in Ulisse lo stesso archetipo dell’avventuriero che un giorno animerà Corto Maltese: il marinaio astuto, ironico, sarcastico, riluttante allo scontro diretto ma capace di spietata freddezza quando necessario. Un uomo che attraversa un mondo in cui il reale e il fantastico convivono senza attrito, esattamente come accadrà nelle avventure di Corto. Non è un caso che l’Ulisse prattiano sembri anticipare il marinaio con l’orecchino: entrambi viaggiano non per accumulare ricchezze, ma per inseguire l’inquietudine. Entrambi abitano quella zona liminale tra storia e mito. Ed entrambi hanno in sé la stessa ironica consapevolezza di chi conosce il mare e le sue insidie.
Gli Scorpioni del deserto
Se Corto Maltese rappresenta il mito mediterraneo e romantico, nel 1969 Pratt decide di affrontare di petto i propri fantasmi bellici con la saga de Gli Scorpioni del deserto. Non è un fumetto qualsiasi, ma la trasfigurazione narrativa di un’esperienza personale: l’Africa Orientale, le memorie della guerra, i deserti infiniti che il giovane Hugo aveva attraversato da adolescente soldato. Il protagonista, il capitano polacco Koinsky, fa parte del Long Range Desert Group, una formazione irregolare dell’esercito britannico impegnata nelle sabbie libiche e somale. Con lui si muove un’umanità varia, segnata da cicatrici fisiche e morali, in cui eroi e traditori, ufficiali e mercenari, amici e nemici spesso si confondono. Pratt non racconta la guerra come una contrapposizione morale tra buoni e cattivi: la mette in scena come avventura totale, dove ciò che conta è la resistenza del singolo, la sua capacità di restare uomo in un mondo che disumanizza. Il tratto grafico è essenziale, spoglio come il paesaggio desertico in cui i personaggi si muovono. I dialoghi, invece, sono densi di psicologia, di ironia amara, di visioni improvvise. Qui Pratt dimostra di non voler alimentare la propaganda dei vincitori: introduce figure che all’epoca erano considerate impresentabili. Emblematico è il tenente Stella, un ufficiale fascista ritratto come ribelle, affascinante, addirittura simpatico. “Il primo fascista bello” dei fumetti, come notò Davide Trovato: un’autentica provocazione culturale negli anni Settanta, quando qualsiasi estetica fascista era censurata o ridicolizzata.
Pratt e Mabire: il barone nero dell’Asia
Ma l’anima di Pratt non si fermava ai mari e ai deserti. Negli anni Settanta si intrecciò idealmente con quella di Jean Mabire, scrittore francese, cronista delle epopee dimenticate e dei “dannati della terra d’Europa”. I due formarono una coppia ideale di gentiluomini di fortuna, accomunati dal gusto per gli irregolari della Storia e dal rifiuto delle verità ufficiali. È grazie a Mabire e a Pratt che una nuova generazione riscopre il nome di Roman Fëdorovič von Ungern-Sternberg, il “barone nero”. Aristocratico baltico, ex ufficiale zarista, nel 1920 decise di non abbandonare la lotta dopo la disfatta delle Armate Bianche. Quando tutti fuggivano dalle banchine della Crimea, Ungern scatenò dalle steppe della Mongolia una disperata controffensiva contro i bolscevichi. Non solo battaglie, ma un progetto grandioso e folle: la creazione di un impero euroasiatico, che unisse ortodossia, buddismo, lamaismo e animismo, saldando tradizioni e popoli in una nuova cavalleria mistica. Al suo seguito si raccolsero migliaia di uomini, la Divisione di Cavalleria Asiatica, in un’epica cavalcata tra Siberia e Mongolia. La sua parabola si chiuse il 15 settembre 1921, con il tradimento e la fucilazione. Ma la leggenda restò. Nella prefazione all’edizione italiana del libro Ungern, le baron fou (Ar, 2009), Mabire scrisse: «Ungern è molto più di Ungern. È scandalo, provocazione, simbolo». Pratt ne colse l’essenza nelle tavole di Corte Sconta detta Arcana: lì il “barone nero” non appare come semplice reazionario o controrivoluzionario, ma come incarnazione dell’avventuriero assoluto, colui che sfida la Storia per inseguire un destino impossibile. Ungern, come Corto, è figura irregolare, refrattaria alle regole del mondo moderno e mosso da una smisurata volontà: “Quando l’universo crolla, tutto diviene possibile”.
L’avventuriero anti-intellettuale
Non stupisce quindi che, alla sua morte, intellettuali come Umberto Eco abbiano cercato di incasellarlo in categorie politiche. Ma già nel 1996 lo scrittore svizzero Jean-Jacques Langendorf chiuse la questione: «L’universo di Pratt è un universo da avventuriero, e, talora, da eroe. Nel suo Ritratto dell’avventuriero Sartre opponeva l’avventuriero al militante: il primo mette in gioco se stesso, il secondo si impegna per gli altri. Nel primo Sartre vedeva il fascista, nel secondo il comunista. Ecco perché l’opera di Pratt è piena di “cattivi avventurieri fascisti”, ed è questo a renderla viva. Perché c’è qualcosa di più noioso dell’universo morale del militante?». Dell'”intellettuale” militante, correggiamo noi: tutti quelle penne impegnate che non producono nulla che valga la pena di sfogliare. Ma Pratt non si fece mai irreggimentare da nessuno. Collaborò per anni con riviste come Pif Gadget, vicine al Partito comunista francese, ma la sua indole insofferente alle ortodossie portò a uno scontro inevitabile. Non accettava steccati ideologici né “linee del partito”. Quando capì che il fumettista non poteva muoversi liberamente, abbandonò senza esitazioni. Era fatto così: o tutto, o niente.
Libero fino alla fine
Fu un uomo che non ebbe paura di sporcarsi le mani con la vita. Dormì per terra, mangiò cibi di fortuna, bevve nelle bettole dei porti e nelle birrerie dei reduci, condividendo canzoni sguaiate con tedeschi, croati, italiani e avventurieri di ogni provenienza. Ebbe figli in più continenti, amò donne lontanissime tra loro per lingua e cultura, perché per lui l’amore era parte della stessa avventura che lo portava a disegnare e a viaggiare. Non si sentiva né intellettuale né moralista: si definiva semplicemente “fumettaro“, e nella sua modestia apparente c’era la fierezza di chi non deve rendere conto a nessuno. Quando il successo arrivò, fu circondato da nuovi “ammiratori” che un tempo lo avevano disprezzato o ignorato. A loro rispose con disincanto: «Questo capovolgimento nei miei riguardi da chi mi criticava è quantomeno semplicista. Come potrei prendere sul serio i giudizi di questa gente?». La sua libertà era troppo vasta per essere ridotta a un’etichetta politica o culturale. Negli ultimi anni scelse la Svizzera come rifugio, circondandosi dei suoi 35.000 libri: un esercito silenzioso di carta, che lo accompagnava nei viaggi immaginari anche quando la malattia ne ridusse le forze. A Losanna, il 20 agosto 1995, morì con alcuni figli al capezzale, lasciando dietro di sé non tanto un’eredità politica o artistica in senso stretto, quanto una visione del mondo: quella dell’avventura come unico codice di vita.
Sergio Filacchioni