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Riflessioni a margine del vertice SCO: dalla Cina nessuna “alternativa” all’occidente

by La Redazione
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Cina

Roma, 7 sett – Nell’epoca in cui la politica internazionale è tornata alle pose forti, conta più l’immagine che la sostanza. Il summit SCO di Tianjin – ribattezzato dai media come “vertice di Pechino” – ne è stata l’ennesima prova. Da un lato la scenografia perfetta: la parata militare, la stretta di mano tra Xi, Putin e Modi, l’impressione di un fronte compatto deciso a sfidare l’Occidente. Dall’altro, la realtà molto più prosaica: interessi divergenti, formule ambigue, proclami senza seguito concreto. È la distanza crescente tra la narrazione mediatica e i rapporti di forza effettivi, che un’analisi identitaria non può ignorare.

La Cina vuole difendere il globalismo senza dazi

La prima voce ascoltata a Tianjin è stata quella di Xi Jinping. E, come sempre accade quando parla il leader cinese, ogni parola è stata soppesata. Xi ha denunciato l’“egemonismo” e i “comportamenti prepotenti”, un’allusione diretta alla politica americana, non certo europea. Ha rifiutato la mentalità da Guerra fredda e i blocchi contrapposti, rilanciando un ordine mondiale “più equo” e multilaterale. In sostanza, la Cina non si è presentata come paladina di Mosca, ma come garante di un globalismo senza dazi, aperto a tutti i partner, Europa compresa. In altre parole, la Cina non si propone come leader di un “blocco anti-occidentale”, ma come difensore di un sistema di libero commercio globale (liberalizzazione dei mercati, investimenti, interdipendenza economica) in cui lei possa continuare a esportare i suoi prodotti e consolidare la sua influenza. È esattamente il contrario di ciò che la propaganda russa ha lasciato intendere, e i media occidentali hanno rilanciato senza spirito critico. Molto diversa, infatti, la posizione di Vladimir Putin, che si è esibito nell’ennesima tirata contro il “ritorno del militarismo tedesco e giapponese”, ammonendo l’Europa perché a detta sua “incapace di imparare dalla propria storia”. Un discorso che a molti nostrani è parso un richiamo realistico alla prudenza, ma che in realtà suona identico alla retorica dei progressisti in area woke di casa nostra: l’Europa ridotta a colpa, a spettro del passato, a entità che deve espiare perennemente un “peccato originale” che va dalla bianchezza al colonialismo e (ovviamente) il fascismo. Ancora una volta, Mosca ci dimostra che non distingue tra Unione europea e Europa come civiltà: le allinea deliberatamente, e nel farlo usa la stessa grammatica dei peggiori predicatori liberal.

Nessuna sfida al mondo occidentale

Ma se riusciamo a superare le foto da parata, rilanciate dai circuiti occidentali come fumo negli occhi, vedremo che gli atti concreti della SCO restano piuttosto modesti: in concreto, dal summit sono usciti la Dichiarazione di Tianjin, una strategia di lungo periodo al 2035 e la creazione di due centri sovranazionali dedicati alla lotta al terrorismo e al narcotraffico. Nulla che cambi realmente gli equilibri in ottica di “sfida al mondo occidentale”. Sul fronte energetico, Mosca e Pechino hanno annunciato un memorandum sul gasdotto Power of Siberia-2, senza definire prezzo o finanziamento: più scenografia che sostanza, con un Putin che accetta di restare junior partner. Dietro i proclami multipolari, è Xi a mostrare i muscoli, soprattutto verso l’India, ricordando a Mosca il suo rango subordinato. Infatti, non c’è stato alcun impegno a sostegno della Russia. Modi ha parlato di “pace giusta e duratura”, Xi ha sottolineato che la Russia non deve “perdere” (ma neppure vincere), lasciando intendere la necessità di un’uscita negoziale. Nessun fronte unito, dunque: soltanto l’ennesimo messaggio di disponibilità a trattare, di fronte a una guerra che logora Mosca e lascia Pechino prudente. L’immagine di un blocco alternativo all’Occidente è stata, ancora una volta, più il prodotto della nostra propaganda e della fretta dei giornali.

D’Alema in Cina è un indizio rivelatore

In questo scenario si innesta un fatto rivelatore: con la svolta protezionistica di Trump e la volontà cinese di ergersi a paladina della globalizzazione deregolata, una parte della sinistra – ma anche del mondo sovranista – rischia di guardare a Pechino per delusione (i primi) e incattivimento (i secondi) verso l’America. Lo dimostra l’uscita di Massimo D’Alema, spuntato magicamente alla parata militare di Pechino per gli 80 anni della vittoria sul Giappone: l’ex premier ha criticato l’assenza dei leader europei alla commemorazione, ammonendo che “isolarsi dalla Cina sarebbe un danno per l’Europa” e dipingendo il Dragone come potenza non aggressiva, garante di stabilità. Una lettura che suona quasi come un rovesciamento simbolico: se un tempo Washington era l’orizzonte naturale dell’internazionalismo progressista, oggi la Cina viene descritta come l’alternativa possibile al “vecchio ordine mondiale”. Ma questa illusione, che attraversa trasversalmente pezzi della sinistra nostalgica e settori di destra sovranista, rivela tutta la sua inconsistenza se messa sotto la lente dei fatti. La Cina non è un’“altra America” pronta a farsi garante della nostra sicurezza o della nostra prosperità: è una potenza che difende esclusivamente i propri interessi e che, come dimostrato a Tianjin, non ha alcuna intenzione di caricarsi sulle spalle il fardello russo né tantomeno di “liberare” l’Europa dal dominio atlantico. Al contrario, Pechino considera l’Europa un mercato da saturare con i suoi surplus industriali e da legare con le catene del debito verde, non un partner da riconoscere come soggetto politico.

Nessuna alternativa se non fare da soli

Eppure, tra i salotti progressisti e gli ambienti pseudo-sovranisti, si fa largo l’idea che l’“ordine multipolare” cinese sia un’alternativa alla decadenza occidentale. È la stessa illusione che già ci viene venduta con la Russia: il mito del “vero difensore dei valori europei” che in realtà parla di noi con lo stesso lessico dei professori woke, condannandoci a un’eterna espiazione. D’Alema che esalta la Cina “non aggressiva” non è molto diverso da chi applaude i sermoni di Putin, ribadendo che non c’è bisogno di nessun riarmo perchè la Russia “non è pericolosa”: entrambi scambiano la propaganda altrui per realismo geopolitico, e in questo scambio svendono la possibilità che l’Europa torni ad essere se stessa. La verità è che né Washington né Mosca, né tantomeno Pechino, sono alternative credibili per il destino europeo. Chi immagina di sostituire un’egemonia con un’altra ripete lo stesso errore, cambiando solo padrone. L’Europa non ha bisogno di nuove Americhe, ma di potenza propria. Non di “globalismi deregolati”, ma di autonomia strategica. Non di sermoni moralisti – in inglese, in russo o in mandarino – ma di una volontà politica capace di affermare i nostri interessi e difendere la nostra civiltà.

Sergio Filacchioni

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